Con l’arrivo del fronte sul Piave comincia l’odissea degli abitanti di Crocetta e del Montello. Quasi tutti saranno costretti ad allontanarsi, qualcuno resterà convivendo con le truppe, italiane e inglesi. Chi sarà costretto a sfollare verrà destinato prevalentemente in centro e sud Italia (Molise, in particolare). Da Crocetta, su un totale di 5477 abitanti, ne vennero allontanati 4841.
Si propone una galleria d’immagini del luogo di origine prevalentemente inglese e qualche testimonianza popolare degli abitanti raccolta alcuni anni fa da Camillo Pavan (https://camillopavan.blogspot.com).
Pare inutile sottolineare l’importanza anche storica del sito, specie in riferimento alla grande visibilità che gli enti pubblici dedicano alle vicende della grande guerra nel territorio.
E in particolare ad un fiume “sacro alla patria” sul quale si spandano celebrazione e fiumi di parole. Parole che diventano retorica e ipocrisia se non seguite da fatti coerenti.
A distanza di poco più di un secolo, il quadro visivo e materiale ci restituisce un mondo diverso, ma non completamente. Non è un caso che uno dei pochi attributi ambientali che non è radicalmente mutato sia proprio l’habitat delle grave, inalterato segno del tempo restituito dalla storia e ora insidiato da scelte puramente tecniche. Natura e tecnica, eterno conflitto. Questa è una delle ultime occasioni per l’uomo di rendere omaggio alla sua madre uterina: per una volta, almeno.

I Profughi.
Primo Sartor, fante di Busta, incaricato con il suo reparto dello sgombero di Ciano del Montello, così descrive la popolazione al momento di dover abbandonare la loro casa e i loro campi, vale a dire ciò che dava significato alla propria vita.
Qui il grido d’una madre priva del marito in lotta, che avea smarito (sic) il bimbo, colà il vagito d’un piccino di pochi giorni, il sospiro dei vecchi, il lamento dei giovani, si confondeva col comando un’esecuzione (sic), momento tragico, confuso alla passione che univa in un sol battito i mille cuori presenti, affratellati allo stesso destino.
(La guerra di Primo, a cura di L. De Bortoli, Istresco)

Intervista a Giulio Bianchin detto Toffolon (da Pavan)
Nato nel dicembre del 1914 in località S. Mama (Ciano del Montello, TV).
Abita in una casa con vista sul Piave, proprio ai bordi delle grave…
La mia casa anche se era in prima linea durante la guerra non è stata del tutto distrutta, ma solo colpita e “bucata” dalle granate.
Subito dietro i muri della nostra casa era stata scavata la trincea italiana e al ritorno i miei hanno dovuto lavorare un bel po’ per coprirla. C’era anche una galleria che passava sotto la nostra casa e si congiungeva con un’altra trincea che c’era davanti a casa.
Sul Piave c’era della terra buona, campagna, davanti a casa mia dentro alle grave…
Non ricordo il passo a barca di S. Mama mi ricordo invece di quello di S. Croce e di quando, da piccolo, lo usavo con mio papà per passare il Piave, evitando di andare o a Vidor o alla Priula. Da Santa Croce si arrivava a Faldè (Falzè).
Adesso il terreno sul Piave vicino a casa mia non c’è più, è stato portato via dal fiume nel ’45 e anche, ultimamente, nel ’66. Comunque a Siàn (Ciano) ci sono ancora campagne nel Piave; terreno demaniale affittato dal Comune che a sua volta lo affitta ai contadini, (le “prese delle grave”). Anche la Curia aveva del terreno nel Piave.
Sul Piave c’erano le vénghe (i vimini) che venivano pelate a giugno, per far cesti e noi ragazzini andavamo a prenderle e poi le vendevamo per comprarci qualcosa. L’arbusto era chiamato le buscariòe e i vimini non di buona qualità si chiamavano negrasse…
Nella zona a far cesti era un certo Fausto Polegato che abita in comune di Cornuda, appena fuori della statale Feltrina. È ancora vivo e ha un magazzino. Era Polegato a passare per le case a prendere le vénghe con un cavallino. C’erano dei proprietari che avevano qualche “isola” del Piave propria, ma noi ragazzini si andava anche là a portargli via le vénghe.
Dopo la guerra andavo a piombo e a scàje de fero, ma soprattutto si cercava il piombo delle palline degli “sdrapnel” (shrapnel). Vi andavano un pò tutti non solo i ragazzini, ma anche le femene e le tose. Si vedeva alla festa tutta questa squadra di persone che cercavano nelle Grave, specie dopo qualche colpo di grossa pioggia quando emergevano le pallottole dal terreno. Più tardi sono arrivati i cercametalli, ma io non li usavo anche perché costavano tanti soldi… Molti recuperanti hanno anche preso la morte, spaccando le bombe. In paese è morto Nicoletti Sandro, nel bosco, sulla 16 [“presa” n. 16 del Montello], spaccando la bomba assieme a un suo amico e ai due figli di questo amico.

Profughi dopo Caporetto.
Siamo partiti di mattina, un giorno che pioveva. Sono arrivati i soldati … via, via, via. E allora ciàpa, meti soto lo vache carga su quel poco che se podéa e via … na piova, me ricorde. C’era qua dopo Rovarè un rialzo del canale che lo chiamavano el Via no, e là sotto ci siamo fermati un paio d’ore perché pioveva troppo forte. Era un rialzo artificiale del canale per produrre energia elettrica, e là sotto abbiamo trovato anche altre persone a ripararsi. Avevo solo tre anni, ma me ricordo più lóra che dopo…
In stalla avevamo sei vacche e le abbiamo attaccate tutte sei sui due carri con cui siamo partiti: due vacche per carro davanti a tirare, e una legata dietro a ciascun carro.
In famiglia quando siamo scappati eravamo in 8 persone: mio padre Giuseppe (n. 1884) e mia madre Giuseppina Moretto (1889). Il nonno era Piero Bianchin e la nonna Angela Adami.
Io ero il più giovane dei fratelli e avevo due sorelle più vecchie, ancora vive. Una è del ’10 e si chiama Prima e un’altra del ’12 che è suora in Toscana a Firenze e si chiama Luigina (suora dell’ordine di S. Teresa del Bambin Gesù). Il fratello più grande si chiamava Piero ed ora è morto.
Con noi sono scappati i vicini (la famiglia di Ernesto Feltrin detti Tàiti). Ernesto era fratellastro di mio padre e aveva sposato una di San Vito di Altivole, (El)Isa Merlo.
A San Vito di Altivole siamo arrivati alla sera stessa, saranno una quindicina di chilometri… In casa dei Merlo (Tàiti) ci siamo sistemati in qualche modo. Ricordo che là vicino, a due-trecento metri, c’era un bivio dove gli inglesi lasciavano andare in alto un pallone con le corde per vedere nella zona del Piave.
Noi bambini andavamo a vederli tutti i giorni. Mi ricordo anche che c’erano gli scozzesi con le gonne corte (còtoe curte) e quando si abbassavano mostravano tutto, (a volte erano senza mutande), allora le ragazze scappavano e noi bambini ci divertivamo a dirglielo alle ragazze più grandi.
Mi mostra due bossoli raccolti sul Piave e lavorati subito dopo la guerra dai soldati che erano in zona a sistemare un po’ i terreni. Su uno è scritto «Ricordo di guerra del Montello in Ciano 1917-18 Buratto Vittoria» (è il nome della suocera). L’altro bossolo ha la stessa scritta ma è dedicato a Buratto Pietro (suo suocero).
[…]
I soldati si erano “incasati” da noi subito dopo la guerra per coprire le trincee, e qualcuno di loro era specialista nell’incidere i bossoli.
Sotto i bossoli è scritto MB 917 5.
Sono in ottone e sono tenuti ben lucidi da mia moglie [Esterina Buratto, classe 1924].

La nostra casa, quando siamo ritornati, non era completamente rotta. Era bucata in qualche punto, ma non rotta. La prima linea tedesca era di là del Piave, cioè in questo punto a circa due chilometri, perché ci sono le grave, che allora erano anche molto spesso piene di acqua … (c’era l’acqua granda)…
[…]
La casa Serena che si vede citata nelle carte si trovava e si trova sulla (presa) 12, al Cippo degli arditi, poco più avanti, là sopra. Prima c’è la scuola del Cippo arditi e poi c’è la casa, sulla destra.
I Serena erano dei signori di Cornuda, che avevano anche altre case, e all’epoca vi abitava anche proprio un Serena, però la terra era lavorata dai fittavoli, dalla famiglia Bolzanello di cui qualcuno è ancora vivo.
Finita la guerra e fino all’inizio della successiva si andava un po’ tutti a trovare ferro e residuati bellici nel Piave. Io in un paio d’anni mi sono comperato la bicicletta.
Qualcuno si è comprato anche il cercaferro, verso il 1933-35. Ce n’erano diversi, Colle Angelo, Nicoletti Armando … ma erano in 5-6 che andavano a cercare ferro attrezzati. Qualcuno ci è rimasto ucciso, ad esempio Nicoletti Rino, lui e tre suoi figli, spaccando una bomba perforante trovata vicino a casa, sulla 16.
Intervista ad Angela Comin Campagnola (da Pavan), nata nel 1904 a Crocetta del Montello
Quando siamo partiti profughi sono venuti ad avvertirci ma noi non volevamo partire.
Sempre abitato a Crocetta, in via Martiri. Un tempo chiamata località Le Stradelle … noi siamo una famiglia antica di Crocetta.
Siamo andati via con le bestie e un carro; vi abbiamo caricato le galline che sono tutte morte perché non tiravano più fiato dentro il sacco e noi non sapevamo come fare altrimenti. Siamo andati a San Floriano [sulla Postumia, vicino a Castelfranco] da una famiglia che conoscevamo, perché erano venuti qua a stare nel borgo di Crocetta e ci hanno detto di andare casa loro. Là a dormire si dormiva sulla stalla e quando venivano al mattino presto a varnar [governare] le bestie bisognava andare via perché se intrigava e allora bisognava andare fuori. Per mangiare si faceva la polenta e poi ci dicevano portatela sotto il portico e là si mangiava, sempre che ci lasciassero fare la polenta, altrimenti niente polenta. Non ci trattavano tanto bene… Si chiamavano Guadagnin, ed erano venuti a Crocetta a lavorare la terra sotto Pontello. Allora ci siamo trovati un altro posto… Noi lavoravamo la terra per conto nostro, avevamo 12 campi di proprietà ed eravamo i più siori del borgo. Eravamo riusciti a comprarci la terra perché noi facevamo anche el mestier dee séste (cestai). Lavoravamo le ceste in questo borgo, in una casa un po’ più in là. Era mio padre l’organizzatore (il padrone) e si chiamava Luigi Comin, detto Feltrin. Eravamo cinque figlie e un maschio che è morto proprio mentre eravamo profughi. È morto di una granata; lui infatti invece di scappare ha voluto restare qua per “tendere alla roba” [vigilare]. Era il fratello più vecchio e si chiamava Piero, classe 1901. Era rimasto a casa, in attesa che ritornasse mio padre a prendere altra roba che sarebbe servita. Non avrebbe potuto restare qua, ma vi era rimasto anche suo cugino Angelo; lui un bel momento ha preso in mano una granata, e quella è esplosa.
Quando durante la prima guerra è morto mio fratello con una granata, è stato sepolto su una piantada di viti qua all’Indian. Lo hanno seppellito assieme a due soldati.
Mia mamma voleva avere un altro bambino perché voleva el nome, [portare avanti il nome Comin] e allora ne ha preso uno sul brefotrofio e questo bambino è rimasto padrone di tutta la roba e a noi ci è venuto qualcosa di quello che era rimasto…
Il Borgo Indian di Crocetta si trova nei pressi delle fornaci di Crocetta. Sono case che hanno questo soprannome perché vengono fuori con la testa, così, a guardare chi passa, e poi si ritirano … e allora li chiamano “il borgo Indiano”. Mio fratello fu seppellito in quel posto perché là c’erano dei falegnami che facevano delle casse da morto, e mio papa’, poaréto, non aveva coraggio di andare lui a tirar su i resti del figlio. Ha incaricato per l’operazione uno del Municipio che gli ha detto: «Jijo, pense mi, cave mi», e invece passa mesi e passa anni e non lo ha fatto mai. Quando poi si è deciso a farlo mio padre, e aveva la carta in mano per farlo, si è recato sul posto per levarselo e ha scoperto che ormai lo avevano già levato e portato via. Abbiamo poi fatto ricerche, chiesto … ma non siamo venuti a sapere dove fosse stato sepolto.
Intervista ad Angelo Dalla Palma, presa 10 Montello, nato il 2 febbraio 1912 a Coldarco frazione di Enego (VI).
All’intervista è presente (e partecipa) anche la moglie Teresa Francescato, nata nel 1913 a Coldarco frazione di Enego (VI).
I coniugi Dalla Palma sono residenti a Santa Mama del Montello (TV).
Siamo in via “Nord Montello” (Panoramica), vicino alla chiesetta di Santa Mama, al confine fra il confine di Volpago e quello di Crocetta, a poca distanza dal Cippo degli Arditi.
Marito. Prima abitavo sulla presa 14, ma sono nato sulla 10, e sono rimasto sulla 14 dal 1936 al 1962.
Pensavo di non arrivare neppure ai 50 anni, perché non sono mai stato un uomo molto forte, invece … comunque ora sento che a machinéta non va tanto bene e non posso neppure aiutare la moglie.
La sera che siamo andati profughi, a casa mia c’erano 18 ettolitri di vino, e li abbiamo lasciati là. Ma io non pensavo a quelle cose, ero un bambino e pensavo a una cassa di pere che avevamo e volevo prenderne un pochine.
Siamo partiti con una famiglia che abitava là vicino e aveva le bestie da lavoro, abituate al giogo. Le hanno attaccate alla carretta e davanti ci hanno messo una mussa. Noi bambini siamo saliti sulla carretta e siamo andati su per la presa 10 – la nostra casa era sul versante nord del Montello – e ci siamo diretti verso Volpago. Poi siamo andati profughi verso Camposampiero, a Villa del Conte.
Moglie. Abito in questo posto fin da piccolissima. Sono del 1913 […]
Marito. Sono stufo di vedere gli zingari che vogliono entrare in casa mia, e una volta ho preso la forca e li ho fatti correre.
Quando sono andato profugo avevamo una cassa di pere e non pensavo ad altro, non certo alle vacche, o al vino o a tutto il capitale che rimaneva là. Mio padre si è portato dietro una vacca e l’ha mantenuta poi in una stalla.
Le pere erano in una cassa grande, di circa un quintale, e prima dell’inverno le avremmo mangiate. Erano pere grosse così, e quelle che non mangiavamo noi le regalavamo. Non avevano un nome preciso … mi pare ancora di vederle. Erano buone e avevamo un solo pero.
Abitavamo sulla presa 10, sopra il tronco che va a Santi Angeli, a circa un km dalla chiesa. Case comunque ce n’erano anche allora sparse un po’ dovunque sul Montello. [….]

Moglie. […] Mi ricordo che qua, dopo la prima guerra, era tutto differente. Sul confine fra Volpago e Crocetta, c’erano tutte morerine [gelsi selvatici], piantate da una e dall’altra parte del confine.
Senza viti.
Era tutto differente. La strada c’era anche prima, ma non era asfaltata e parte per parte c’erano due file di moreri che la fiancheggiavano […]
Finita la guerra del ’18 abbiamo trovato la nostra casa senza coperto e senza solai, solo con i muri. Vi abbiamo messo sopra dei teli di tenda per ripararci dalla pioggia, e un po’ di paglia per terra per dormire.

Alla notte ci voleva uno che restasse sveglio a far la guardia perché i topi mangiavano le orecchie! I topi erano arrivati in tempo di guerra: il fieno non era stato mai tagliato e sul prato i passaggi dei topi avevano formato come delle gallerie fitte fitte. Non regnavano altro che i topi.
La causa della loro presenza erano anche i rifiuti che i militari avevano lasciato e in più l’erba non era stata tagliata.
I topi che «me magnava e recie», non è un modo di dire: di notte bisognava far la guardia.
A Villa del Conte, dove eravamo profughi, abitavamo in casa di Stellin Pietro. Ricordo che i contadini piantavano nell’orto un po’ di tutto e io andavo negli orti a rubare gli zucchini e le zucche per darle alla vacca che ci eravamo portati dietro, perché facesse latte … e i proprietari mi correvano dietro col bastone.
Siamo venuti via da Villa del Conte appena finita la guerra. Ma anche durante la guerra mio padre ritornava a volte a casa, “su ‘a Diese” (su, sulla presa 10) a prendere il fieno con un cavallo che noleggiava.
Sul Montello sentiva i tedeschi di là del Piave che tiravano col cannone, perché sopra il Montello gli italiani avevano fatto una trincea profonda e larga due metri. Là era il fronte.
Il padrone del cavallo diceva a mio padre: «Scappiamo perché i tedeschi ci ammazzano».
«No, no, diceva mio padre, stanno bombardando più in su, e noi siamo sotto», cioè più in basso della linea che dovevano colpire i tedeschi. La nostra casa infatti era sul versante nord del Montello e malgrado le linee di difesa italiane e le granate tedesche mio padre riusciva a portare a casa il fieno, in piena guerra.
Al ritorno sul Montello abbiamo trovato degli austriaci che erano prigionieri. Erano pieni di fame. Ce n’era una compagnia su una buca. Io sono andato a portargli un po’ di pane e loro mi hanno dato ‘na spineta [un’armonica a bocca] lunga così: più contento di me non c’era nessuno, suonava proprio bene.
I prigionieri erano sulla presa 10, proprio sopra casa nostra. Erano là, dentro a una buca, pieni di fame.
Io sono andato a scuola “alla Peschiera”, che si trova in cima alla 12, vicino all’osteria di Sbeghen. La Peschiera era un laghetto “fermo”. Da dove abitavo ai Santi Angeli per arrivare a scuola dovevo camminare un’ora. Ma allora eravamo boce e si camminava forte…
Mi ricordo che quando siamo tornati da profughi qua a S. Mama c’era lungo la strada una fila di granate alta un metro e lunga venti metri, che poi le hanno portate via. Per terra c’erano petardi, “signorine”, bombe.
Le chiamavano signorine perché avevano il manico di legno e una sottanina sottile e dentro c’era l’esplosivo. I petardi erano come una scatoletta, facili da esplodere e ancora carichi.
Ricordo un caporale che andava a trovare una ragazza vicino a casa mia e “per farsi vedere” ha colpito con una fucilata (1 colpo del fucile ’91) un petardo che era a una ventina di metri, giù in fondo a una buca, e gli è arrivata una scheggia proprio in mezzo alla fronte; per fortuna era superficiale.

Lucio De Bortoli
Immagine di copertina:
Il Piave dalla feritoia dell’osservatorio del re
sulla presa XV del Montello – Ph Tiziano Biasi ©
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