Andrea Zanzotto e la fedeltà al paesaggio

L’impegno per la salvaguardia del patrimonio paesaggistico veneto ha particolarmente caratterizzato l’ultima fase della vita e dell’attività culturale di Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921 – Conegliano 2011), di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita.

Le riflessioni di Zanzotto sulla catastrofe climatica (cementificazione selvaggia, riscaldamento globale, estinzione di biospecie, progressiva desertificazione) lo hanno spesso indotto ad assumere, anche in interventi ed interviste, decise prese di posizione in favore dell’ambiente, nonché a promuovere e sottoscrivere appelli e petizioni. Nell’aggressione scriteriata – quasi feroce – ad un paesaggio che fino a settant’anni fa era ancora quello dei quadri di Giorgione e di Cima da Conegliano, il poeta vedeva, con sconforto e avvilimento, il tragico compiersi di un demenziale processo di degrado naturale che inesorabilmente sta provocando anche degrado e destrutturazione dell’umano.

Quella di Zanzotto è stata una straordinaria forma di “resistenza” a tale aggressione, alla “bruttezza che sembra quasi calata dall’esterno sopra un paesaggio particolarmente delicato”, allo sconsiderato “progresso scorsoio” che ha creato devastazioni anche in ambito sociologico e psicologico.   

La letteratura – quella grande – arriva sempre prima, i poeti (gli artisti) hanno antenne assai ricettive. Anche sottovoce – magari suo malgrado – un grande poeta è, per tanti aspetti, profeta. Zanzotto aveva visto molto avanti già dagli anni ’50 del secolo scorso. Forse perché lui, nel paesaggio, si era immerso e “rinchiuso” fin dall’infanzia, lo aveva, in un certo senso, quasi “indossato”.

E la produzione poetica di Zanzotto è caratterizzata, già dagli esordi, dalla costante fedeltà al paesaggio e dalla feconda interazione con esso (“Ho paesaggito molto”, dice in La beltà).

È una poesia che si è andata sviluppando secondo una costanza di scenografia, di sfondi (i colli del Solighese e il profilo delle Prealpi, il Piave, il Montello), abbastanza singolare nel nostro panorama letterario. Per il poeta il paesaggio si pone, fin dall’inizio, come condizione indispensabile, ragione principale di vita, nucleo affettivo motivante l’esistenza stessa prima che l’attività poetica. Quest’ultima infatti resterà concepibile solo in un ben preciso ambito territoriale, al cui interno è proprio il paesaggio ad esercitare sul poeta un’influenza determinante nell’indirizzarlo verso la poesia fin dall’infanzia. Tanto più che la suggestione e l’incanto di una natura di rara bellezza gli venivano riproposti dai dipinti del padre, pittore e insegnante di disegno.

Mediante i paesaggi paterni l’infanzia del poeta entra in contatto con una bellezza elevata al quadrato, che diventa fonte di profonde emozioni e di zampillanti slanci dell’immaginazione, favoriti anche dalla musicalità del dialetto e dal sottofondo carezzevole dei ritmi delle cantilene e delle filastrocche infantili: semplici ma fecondi regali di un ambiente poverissimo e pur ricco di stimoli.

“Il Piave a Santa Mama” – Acquerello di Fiorenza Serrajotto©

Paesaggi “doppi”, dunque, fuori e dentro casa. Il meraviglioso stupore verso gli incanti del paesaggio, sollecitato dall’abile arte paterna, diventa desiderio di corrispondenza con il paesaggio reale che quest’arte ha ispirato. L’animo fanciullo si apre ad una contemplazione che ambisce a farsi comunione con il mistero dell’esistenza, con l’intensa vita di una realtà rivelata dall’arte in tutta la sua bellezza.

Questo sentimento di corrispondenza con il mondo esterno è soprattutto gioia di esistere, pienezza di partecipazione alla vita circostante investita dall’egocentrismo del Narciso iniziale. Ma, davanti alle tragiche contraddizioni della realtà, tale corrispondenza vacilla e si incrina. Il rapporto con l’esterno, prima orientato dal fervore dell’immaginazione secondo il principio del piacere, a poco a poco si riconosce precario, lascia filtrare la desolazione di inquietanti solitudini.

Eppure l’io del poeta ha bisogno di riconoscere nel paesaggio una traccia dell’affettività altrove negatagli, un rimedio al trauma-eros iniziale (collegato probabilmente ad una carente presenza materna).

Il paesaggio – ancorché stilizzato, analogico, iperletterario – si configura come una sorta di alter ego del poeta e non manca di contorni in qualche modo rassicuranti.

In alternativa ad una realtà che si rivela nella fosca luce della tragedia e del proprio fluire verso l’ignoto e il nulla, il paesaggio è sentito come l’unica presenza duratura, la sola entità “per una verifica che si possa dare come probabilmente vera” (G. Nuvoli).  

“Il Montello dalle Grave di Ciano” – Acquerello di Fiorenza Serrajotto©

Già nei primi anni cinquanta, Zanzotto definisce questo paesaggio, con una sfumatura d’ironia (còlta, del resto, già da Ungaretti), “una mia Arcadia (nella ‘ingens silva’ del Montello, sulle rive del fiume di Gasparina e dell’Anassillide, prima del Piave e del Montello della Grande Guerra)”. Un paesaggio, cioè, che il poeta vorrebbe sottratto alla Storia e ai suoi errori-orrori, concepito come un luogo dell’anima, nel quale possa trovar posto, tra il frastuono e il furore dell’oscuro fluire degli eventi storici, il canto-incanto che scaturisce dalla contemplazione della natura, secondo una tradizione letteraria risalente almeno a Virgilio. Questa Arcadia poi sconvolta dalla guerra (successivamente dalla lebbra cementizia e ultimamente da ossessive piantumazioni bacchiche) anela a porsi come un “altrove” rispetto alla Storia e al suo farsi disumano.

Tuttavia, anche se per la prima produzione poetica di Zanzotto non mancarono gli equivoci, la sua non è un’Arcadia placidamente bucolica, non diventa evasione o dimissionario pretesto per ipocrite consolazioni, né sterile rimpianto per ozi pastorali o idilli boscherecci. C’è sempre la sofferta consapevolezza che davanti alla Storia non esistono possibilità di rifugio o di approdo ad altri mondi.

Il poeta percepisce nitidamente l’insufficienza della Storia in una qualsiasi prospettiva di salvezza, nonché l’impotenza dell’uomo a convogliarla in tal senso. Ben lungi dal proporre salvezza, la Storia si rivela solo nella sua cieca impetuosità, nelle sue traumatiche devastazioni che uomini e paesaggio hanno tragicamente subìto.

Il cataclisma della Grande Guerra, in primo luogo, con i massacri tra Piave e Montello, il ricordo dei quali era ferita ancora aperta durante l’infanzia del poeta.

E al “Fiume fedele”, Zanzotto si rivolge nella poesia Sul Piave (in IX Ecloghe) riconoscendogli il merito di aver geologicamente modellato un territorio e plasmato un microcosmo antropologico:

                            “Era ad era, minuzia a minuzia,

                            crescesti questi sedimenti 

                            da cui prendemmo forma e forza a vivere”

Le ere geologiche, dunque, il millenario costituirsi dell’esile mito di un’Arcadia totale, le origini. La scommessa della poesia consiste proprio nella ripresa del contatto con le origini, nel cercare di riattingere le radici. È questa la condizione prima per un impegno che voglia darsi senso e ridare fondamento ad un’etica. Dal ritorno ad una auroralità-infanzia come grado massimo della “buona fede” nei riguardi della vita può derivare la speranza di trovare una “parola” di salvezza e di rifondazione, di fiducia che possa esorcizzare e neutralizzare “ogni fenomeno di accumulo di morte, ogni potere-morte”.

Zanzotto si attesta dunque su una linea leopardiana di resistenza della dignità umana, ricollegandosi anche a tutta una tradizione che lega la nostra zona a presenze letterarie significative: Gaspara Stampa (che cantò a questi colli il suo infelice amore per il bel Collaltino di Collalto), Angela Veronese (divenuta, in Arcadia, Aglaia Anassillide), monsignor Della Casa (l’autore del Galateo, che soggiornò nell’abbazia di Nervesa). In questi luoghi, negli ultimi secoli, la Storia è entrata di prepotenza con il suo insensato fluire: prima la progressiva devastazione ottocentesca del “Gran bosco”, poi le stragi e sofferenze della prima guerra mondiale, che hanno coinvolto anche la famiglia di Zanzotto:

           “sulla tua riva sinistra mia madre patì sola,

                 a destra combatteva mio padre ed io non ero.”                                       

                                           (da Sul Piave, in IX Ecloghe, Milano, Mondadori, 1962)

Da allora i luoghi deliziosi di passate Arcadie conservano segni laceranti e si sono ricoperti di ossari e cippi. In Galateo in Bosco Zanzotto individua una “linea degli ossari” che corre lungo il Montello e l’asse fluviale del Piave. Ossari diventati luoghi della negazione delle persone, ”dove in cassettini minuscoli / han ricetto le schegge dei giovinetti fatti fuori” (Il Galateo in Bosco, Milano, Mondadori, 1978, pag. 25).  Pure la toponomastica ha assunto un alone al tempo stesso macabro e ammonitore (Isola dei morti, Valle dei morti).

Ma poi il Montello e il Piave anche come luoghi d’avventura di Zanzotto ragazzo, che attraversava il fiume al passo barca di Falzè e si addentrava in bicicletta tra stradine e viottoli del Bosco, la collina come la giungla di Salgari. La Storia vi aveva già fatto la sua devastante irruzione, ma la natura stava tornando a riprendersi il proprio. 

Acquerelli di Fiorenza Serrajotto ©

L’irruzione della Storia, riverberatasi sul paesaggio con monumenti, sacelli e lapidi, nei decenni successivi si ripropone in altra veste nella furia consumistica dei weekendisti e dei frequentatori domenicali di trattorie e ambienti tipici, in “un affastellarsi immondo di stragi e di feste intestinali”.

L’Arcadia si scontra con il consumismo che rende tutti bisognosi del superfluo, viene aggredita da urbanizzazione dissennata, zone industriali e centri commerciali.

Da ultimi, vi irrompono gli effetti dell’ossessione del PIL, il caos disumanizzante del mondo globalizzato e supertecnologico (per molti aspetti promesse mancate), il turbocapitalismo, il risiko sgangherato della finanza mondiale. Per dirla con le parole di Zanzotto nella Conversazione con Marzio Breda (Milano, Garzanti, 2009):

“c’è un volano infernale che gira ed esaspera una certa idea di onnipotenza che poco ha a che fare con il destino umano”.

Ormai il “cretinismo del mercato” e il “fondamentalismo globalista” dominano su tutto, imperversa “la furia globale / tutta sbavante di poter lucrare / anche sul proprio funerale” (da Misteri climatici, in Conglomerati). Solo una piccola minoranza si preoccupa dello sconvolgimento climatico e della sorte del pianeta. Prima c’erano i campi di sterminio, adesso siamo passati allo “sterminio dei campi”, ma la logica sembra la stessa:

 “5 pianeti occorrono alla fame dei terrestri

                   terroristi in favore della pletora”

                             (da Altri 25 aprile, in Conglomerati, Milano, Mondadori, 2009)

Un’Arcadia insomma, quella di Zanzotto, vista costantemente nella luce virgiliana del conflitto: un mondo di dolcezza/beltà/armonia in cui irrompono prima lo strepito delle armi (la guerra mondiale), poi il baccano e gli interessi beceri che sconquassano anche i pensieri e producono stravolgimento e negazione dell’umano. È un’Arcadia che non assume mai connotati definitivamente consolatori, anche se ostinatamente la poesia di Zanzotto ha sempre cercato il recupero di una armonia tra natura e cultura, tra bosco e galateo. Tale tentativo di ricomposizione si oppone al nichilismo e permette di ritrovare a tratti nella realtà quello che Zanzotto, riprendendo un termine della filosofia greca e cristiana, definisce logos.

Esiste cioè la forza sottile della razionalità, per cui la realtà ha comunque un senso, un fondamento.

Tuttavia questo logos-fondamento rimane inattingibile, impermeabile ad un recupero, data la persistente mancanza di coincidenza di realtà e rappresentazione, di soggetto e oggetto. Pur con la consapevolezza che l’uomo resta sempre scisso, solo la poesia può avventurarsi nel tentativo di ricongiungere a intermittenza res cogitans e res extensa. Ma ciò che scaturisce da questo tentativo resta sempre un “balbo parlare”, anche se implica un coinvolgimento completo e ad alto rischio psichico, un’autoimmolazione del poeta senza sicura contropartita. Alla base di questo sforzo generoso c’è soltanto un atto di fede nella poesia, alla quale spetta l’impegno di una ricerca fondante che miri a rinsaldare quello che nell’uomo e nel mondo di oggi è diventato un equilibrio assai labile.  

                                                                                                       Egidio Bolzonello

Foto di Copertina Andrea Zanzotto tratta dal sito http://www.minimaetmoralia.it

Nella gallery gli acquerelli di Fiorenza Serrajotto

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