Tutti noi quando andiamo in vacanza o in viaggio all’estero, quando visitiamo una città d’arte o semplicemente facciamo una gita in montagna, non dimentichiamo di portare con noi la macchina fotografica. Infatti sentiamo e abbiamo il bisogno di immortalare la bellezza dei luoghi, gli scorci caratteristici o gli aspetti più insoliti che incontriamo.
Se quando visitiamo un posto nuovo ci viene facile cogliere quanto di diverso e vario ci troviamo di fronte, questo solitamente non succede per quanto riguarda ciò che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno.
Ed è questa una sfida per il fotografo naturalista: riuscire a cogliere la bellezza, l’originalità dell’ambiente che lo circonda, la specificità della natura che si trova fuori la porta di casa.
Le grave di Ciano possono a prima vista sembrare un luogo poco interessante, inospitale, sterile, un insieme di sassi e ciottoli dove c’è poca vita e dove crescono solo cespugli spinosi e ciuffi d’ erba secca. Ebbene in quest’area, purtroppo da molti poco considerata, si trova un’alta biodiversità e oltre a caratteristiche piante endemiche, arbusti e fiori qui vivono anche numerose specie di mammiferi, uccelli, rettili, insetti, farfalle ecc..
Chiunque ami la fotografia naturalistica e si avvicini a questo luogo con discrezione e rispetto, può portare a casa in ogni stagione dell’anno immagini emozionanti e uniche.
Qui madre natura ci stupisce con distese profumate gialle e rosa del citiso, con i cuscini fucsia dell’astragalo o lilla del timo, con le numerose varietà di orchidee spontanee mentre l’occhio attento del fotografo può scorgere gli insetti o le farfalle posate sui fiori. Anche le distese ondeggianti dei “mamai” luccicanti in controluce suscitano grandi emozioni.
Nelle grave di Ciano si possono fare degli incontri speciali: infatti non è raro scorgere il biancone , un falco che si ciba di serpenti, con la preda che gli pende dal becco, oppure il raro pendolino con il suo originale nido o i rondoni che ti sfrecciano sopra la testa.
Anche chi preferisce la fotografia paesaggistica trova in questo luogo spunti unici. Infatti in questa nostra provincia di Treviso così antropizzata sono poche le aree dove lo sguardo può spaziare senza incontrare segni della presenza umana.
Oltre la sconfinata prateria, che cambia colore di giorno in giorno, si può scorgere il profilo sinuoso delle colline del Prosecco, e sullo sfondo il crinale delle Prealpi che con le luci dell’alba e del tramonto si dipingono di magia.
Non è necessario andare lontano per fare belle foto, basta puntare l’obiettivo su questi habitat unici e speciali che abbiamo vicino a casa e salvaguardarli per chi verrà dopo di noi.
Nel titolo dell’Ordine del giorno proposto dalla Regione Veneto ai Comuni del Medio Piave, presumibilmente dall’Assessore all’ambiente GianPaolo Bottacin, si parla di “sicurezza delle popolazioni che vivono in questa parte della pianura trevigiana”.
Nel momento in cui si ricorre, in questa materia, alla deliberazione dell’assemblea consiliare, si dovrebbe anche conoscere, con una approfondita ispezione in loco, perlomeno nella parte del proprio territorio interessata dal fiume, quale è realmente la situazione delle rive e del greto del nostro corso d’acqua, quali possono essere gli impedimenti allo scorrere delle correnti fluviali, le erosioni in atto sulle rive golenali, e poi la consistenza delle vegetazioni a ridosso delle sponde soprattutto nel divagare del fiume nella zona della fascia delle risorgive.
A maggior ragione per Comuni come quelli di Maserada e di Cimadolmo – ma anche Spresiano, Susegana, Breda di Piave, S. Biagio di Callalta, Ormelle e Ponte di Piave che hanno molti ettari del loro territorio comunale, occupati da ambiti golenali, come pure, verso il rilievo collinare, negli ambiti fluviali dei comuni di Crocetta, di Sernaglia, ma anche di Valdobbiadene e di Pederobba e poi di Vidor e di Moriago,… – i cui territori di golena qualificano tutta la loro realtà comunale sia dal punto di vista del valore ambientale che da quello economico in una prospettiva di futuro sviluppo turistico slow.
Perché fermarsi ad approvare un o.d.g. calato dall’alto, prima ancora di rendersi conto di quali possono essere i problemi concreti che gli ambiti fluviali, presenti nel proprio territorio, stanno soffrendo?
Perché non concordare con tutti i consiglieri comunali e con le associazioni di volontariato culturali, ambientaliste, con le organizzazioni imprenditoriali che operano nel territorio, decisioni per un futuro di vero progresso utilizzando correttamente la risorsa ambientale? Ci si deve rendere conto che il Fiume con le risorse che racchiude, rappresenta da solo la base da cui partire per rendere più interessante il futuro delle comunità che lambisce con il suo corso.
Perché non adottare da subito la prassi sperimentata del Contratto di Fiume con la sua capacità di condivisione e di discussione partecipata nei confronti di tutti i portatori di interesse?
Ma è proprio vero che la grande opera delle Casse di Ciano, può risolvere il problema della laminazione delle piene secolari della Piave?
Senza scomodare i risultati della Commissione De Marchi degli anni ‘70 , ci sembra che anche il Piano Stralcio per la Sicurezza idraulica del 2010, approvato dall’Autorità di Bacino presenti 4 possibilità di intervento quasi ad indicare che, se si vuole intervenire efficacemente in tutta l’asta fluviale del medio Piave, è necessario pensare di rendere lo spazio dovuto al divagare delle correnti in situazione di morbida e di piena tenendo conto che questa è la tendenza che hanno concretamente imboccato tutte le nazioni europee che vogliono risolvere realmente i problemi di sistemazione idraulica degli ambiti fluviali del continente.
Se i consigli comunali potessero fare sintesi sulle varie situazioni presenti nelle golene fluviali, si accorgerebbero che molta parte di queste zone a ridosso del Fiume è occupata da vigneti, da agricoltura intensiva ed ancora da vigneti!
Anzi, molto spesso questi vigneti, che sfiorano ed a volte invadono il letto fluviale, vengono difesi dall’inevitabile erosione, con massi trasportati e posizionati in loco a spese di tutta la comunità.
La Golena del Piave tra Ponte di Piave e Sant’Andrea di Barbarana – Tratta da Google Earth 2020
Domanda:
chi ha permesso questi insediamenti produttivi così a ridosso delle correnti fluviali? E chi ha speso i soldi delle comunità per garantire reddito a favore di privati imprenditori agricoli?
È il Genio Civile, che si ostina a concedere continuamente escavazioni in letto pensando di risolvere il problema delle erosioni scavando al centro ed illudendosi che l’acqua scorrerà in quella parte dell’alveo con il Fiume che, di conseguenza logica, provocherà il fenomeno delle erosioni delle rive, smentendo un ragionamento duro a morire all’interno del nostro genio trevigiano.
Esempi di erosione e taglio degli alberi di riva lungo la Piave – Fonte Fausto Pozzobon Legambiente Piavenire
Cari Consigli Comunali, questo sta avvenendo ormai da anni in Piave e non occorre essere ingegneri idraulici per cogliere i veri problemi di questo Fiume massacrato dagli interessi di pochi che presenta il conto perché in dissesto idromorfologico ed idrogeologico: e pensare che ancora nel 2010, il prof. Emerito Luigi D’Alpaos, peraltro emendabile in tante altre occasioni, in una relazione commissionata dai Comuni di Breda di Piave e di Maserada sul Piave affermava con nettezza che, in questa parte dell’asta fluviale, non si doveva portar via nessun metro cubo dai greti del fiume!
Estratti delle delibere dei Consigli Comunali a sostegno di Crocetta del Montello
A parte il fatto che nell’o.d.g., il Bottacin ha fatto scrivere, sapendo di mentire, che il solo Comune di Crocetta del Montello si è opposto alla realizzazione dell’invaso di Ciano, quando in verità tutti i Comuni dell’area montelliana più Valdobbiadene, Vidor (e probabilmente anche Caerano e Pederobba) hanno confermato il proprio NO unanime, perché, in presenza di un sicuro e cospicuo stanziamento statale, non si percorre la strada dell’intervento innovativo, supportato dalle comunità rivierasche, che preveda l’allargamento dello spazio vitale al Fiume, alle sue isole fluviali, alle sue lanche ricche di biodiversità, alle sue macchie boschive di riva da ricostruire con l’aiuto delle nuove generazioni, addirittura con i bambini ed i ragazzi della scuola dell’obbligo? ? ?! ! !
Contemporaneamente, e lo stanziamento di decine di milioni di euro ce lo permette, potremo far arretrare le invadenti coltivazioni e riconsegneremo migliaia di ettari allo scorrere del Fiume, incrementando la distribuzione dell’acqua in una falda freatica sempre più compromessa, incapace di mantenere attivi tutti i fontanili della nostra fascia delle risorgive.
Con un progetto di questo tipo, l’U. E. non avrebbe nessuna difficoltà ad aumentare lo stanziamento, proveniente dal Next Generation Plan, riconoscendone la qualità.
Quindi la somma di 1.600.000,00 euro per il progetto di casse lungo il letto del Medio Piave, venga dirottato a favore di un progetto di una vera sistemazione idraulica ed idromorfologica dell’intero settore golenale ritornando spazio al fiume e ricreando nuovi letti per lo scorrere delle morbide e delle piene del nostro Fiume.
Confronto su arco 30 anni della Piave nel tratto tra Fossalta di Piave e Noventa di Piave. Fonte aerofoteteca della RV.Confronto su arco 40 anni della Piave nel tratto tra Fossalta di Piave e Noventa di Piave. Fonte aerofoteteca della RV e BING map. L’area delle Grave di Ciano dal 2004 al 2020 – Fonte Google Earth.
Riprendiamo in mano una bella carta I.G.M. degli anni ‘60 in scala 1.25.000 dell’intero letto fluviale e scopriamo quali erano le parti del territorio golenale che erano interessate al defluire delle acque della Piave. Ci accorgeremo di quanto spazio abbiamo sottratto ai letti fluviali in 60 anni, nel silenzio assordante del Genio Civile di Treviso.
L’impegno per la salvaguardia del patrimonio paesaggistico veneto ha particolarmente caratterizzato l’ultima fase della vita e dell’attività culturale di Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 1921 – Conegliano 2011), di cui quest’anno si celebra il centenario della nascita.
Le riflessioni di Zanzotto sulla catastrofe climatica (cementificazione selvaggia, riscaldamento globale, estinzione di biospecie, progressiva desertificazione) lo hanno spesso indotto ad assumere, anche in interventi ed interviste, decise prese di posizione in favore dell’ambiente, nonché a promuovere e sottoscrivere appelli e petizioni. Nell’aggressione scriteriata – quasi feroce – ad un paesaggio che fino a settant’anni fa era ancora quello dei quadri di Giorgione e di Cima da Conegliano, il poeta vedeva, con sconforto e avvilimento, il tragico compiersi di un demenziale processo di degrado naturale che inesorabilmente sta provocando anche degrado e destrutturazione dell’umano.
Quella di Zanzotto è stata una straordinaria forma di “resistenza” a tale aggressione, alla “bruttezza che sembra quasi calata dall’esterno sopra un paesaggio particolarmente delicato”, allo sconsiderato “progresso scorsoio” che ha creato devastazioni anche in ambito sociologico e psicologico.
La letteratura – quella grande – arriva sempre prima, i poeti (gli artisti) hanno antenne assai ricettive. Anche sottovoce – magari suo malgrado – un grande poeta è, per tanti aspetti, profeta. Zanzotto aveva visto molto avanti già dagli anni ’50 del secolo scorso. Forse perché lui, nel paesaggio, si era immerso e “rinchiuso” fin dall’infanzia, lo aveva, in un certo senso, quasi “indossato”.
E la produzione poetica di Zanzotto è caratterizzata, già dagli esordi, dalla costante fedeltà al paesaggio e dalla feconda interazione con esso (“Ho paesaggito molto”, dice in La beltà).
È una poesia che si è andata sviluppando secondo una costanza di scenografia, di sfondi (i colli del Solighese e il profilo delle Prealpi, il Piave, il Montello), abbastanza singolare nel nostro panorama letterario. Per il poeta il paesaggio si pone, fin dall’inizio, come condizione indispensabile, ragione principale di vita, nucleo affettivo motivante l’esistenza stessa prima che l’attività poetica. Quest’ultima infatti resterà concepibile solo in un ben preciso ambito territoriale, al cui interno è proprio il paesaggio ad esercitare sul poeta un’influenza determinantenell’indirizzarlo verso la poesia fin dall’infanzia. Tanto più che la suggestione e l’incanto di una natura di rara bellezza gli venivano riproposti dai dipinti del padre, pittore e insegnante di disegno.
Mediante i paesaggi paterni l’infanzia del poeta entra in contatto con una bellezza elevata al quadrato, che diventa fonte di profonde emozioni e di zampillanti slanci dell’immaginazione, favoriti anche dalla musicalità del dialetto e dal sottofondo carezzevole dei ritmi delle cantilene e delle filastrocche infantili: semplici ma fecondi regali di un ambiente poverissimo e pur ricco di stimoli.
Paesaggi “doppi”, dunque, fuori e dentro casa. Il meraviglioso stupore verso gli incanti del paesaggio, sollecitato dall’abile arte paterna, diventa desiderio di corrispondenza con il paesaggio reale che quest’arte ha ispirato. L’animo fanciullo si apre ad una contemplazione che ambisce a farsi comunione con il mistero dell’esistenza, con l’intensa vita di una realtà rivelata dall’arte in tutta la sua bellezza.
Questo sentimento di corrispondenza con il mondo esterno è soprattutto gioia di esistere, pienezza di partecipazione alla vita circostante investita dall’egocentrismo del Narciso iniziale. Ma, davanti alle tragiche contraddizioni della realtà, tale corrispondenza vacilla e si incrina. Il rapporto con l’esterno, prima orientato dal fervore dell’immaginazione secondo il principio del piacere, a poco a poco si riconosce precario, lascia filtrare la desolazione di inquietanti solitudini.
Eppure l’io del poeta ha bisogno di riconoscere nel paesaggio una traccia dell’affettività altrove negatagli, un rimedio al trauma-eros iniziale (collegato probabilmente ad una carente presenza materna).
Il paesaggio – ancorché stilizzato, analogico, iperletterario – si configura come una sorta di alter ego del poeta e non manca di contorni in qualche modo rassicuranti.
In alternativa ad una realtà che si rivela nella fosca luce della tragedia e del proprio fluire verso l’ignoto e il nulla, il paesaggio è sentito come l’unica presenza duratura, la sola entità “per una verifica che si possa dare come probabilmente vera” (G. Nuvoli).
Già nei primi anni cinquanta, Zanzotto definisce questo paesaggio, con una sfumatura d’ironia (còlta, del resto, già da Ungaretti), “una mia Arcadia (nella ‘ingens silva’ del Montello, sulle rive del fiume di Gasparina e dell’Anassillide, prima del Piave e del Montello della Grande Guerra)”. Un paesaggio, cioè, che il poeta vorrebbe sottratto alla Storia e ai suoi errori-orrori, concepito come un luogo dell’anima, nel quale possa trovar posto, tra il frastuono e il furore dell’oscuro fluire degli eventi storici, il canto-incanto che scaturisce dalla contemplazione della natura, secondo una tradizione letteraria risalente almeno a Virgilio. Questa Arcadia poi sconvolta dalla guerra (successivamente dalla lebbra cementizia e ultimamente da ossessive piantumazioni bacchiche) anela a porsi come un “altrove” rispetto alla Storia e al suo farsi disumano.
Tuttavia, anche se per la prima produzione poetica di Zanzotto non mancarono gli equivoci, la sua non è un’Arcadia placidamente bucolica, non diventa evasione o dimissionario pretesto per ipocrite consolazioni, né sterile rimpianto per ozi pastorali o idilli boscherecci. C’è sempre la sofferta consapevolezza che davanti alla Storia non esistono possibilità di rifugio o di approdo ad altri mondi.
Il poeta percepisce nitidamente l’insufficienza della Storia in una qualsiasi prospettiva di salvezza, nonché l’impotenza dell’uomo a convogliarla in tal senso. Ben lungi dal proporre salvezza, la Storia si rivela solo nella sua cieca impetuosità, nelle sue traumatiche devastazioni che uomini e paesaggio hanno tragicamente subìto.
Il cataclisma della Grande Guerra, in primo luogo, con i massacri tra Piave e Montello, il ricordo dei quali era ferita ancora aperta durante l’infanzia del poeta.
E al “Fiume fedele”, Zanzotto si rivolge nella poesia Sul Piave (in IX Ecloghe) riconoscendogli il merito di aver geologicamente modellato un territorio e plasmato un microcosmo antropologico:
“Era ad era, minuzia a minuzia,
crescesti questi sedimenti
da cui prendemmo forma e forza a vivere”
Le ere geologiche, dunque, il millenario costituirsi dell’esile mito di un’Arcadia totale, le origini. La scommessa della poesia consiste proprio nella ripresa del contatto con le origini, nel cercare di riattingere le radici. È questa la condizione prima per un impegno che voglia darsi senso e ridare fondamento ad un’etica. Dal ritorno ad una auroralità-infanzia come grado massimo della “buona fede” nei riguardi della vita può derivare la speranza di trovare una “parola” di salvezza e di rifondazione, di fiducia che possa esorcizzare e neutralizzare “ogni fenomeno di accumulo di morte, ogni potere-morte”.
Zanzotto si attesta dunque su una linea leopardiana di resistenza della dignità umana, ricollegandosi anche a tutta una tradizione che lega la nostra zona a presenze letterarie significative: Gaspara Stampa (che cantò a questi colli il suo infelice amore per il bel Collaltino di Collalto), Angela Veronese (divenuta, in Arcadia, Aglaia Anassillide), monsignor Della Casa (l’autore del Galateo, che soggiornò nell’abbazia di Nervesa). In questi luoghi, negli ultimi secoli, la Storia è entrata di prepotenza con il suo insensato fluire: prima la progressiva devastazione ottocentesca del “Gran bosco”, poi le stragi e sofferenze della prima guerra mondiale, che hanno coinvolto anche la famiglia di Zanzotto:
“sulla tua riva sinistra mia madre patì sola,
a destra combatteva mio padre ed io non ero.”
(da Sul Piave, in IX Ecloghe, Milano, Mondadori, 1962)
Da allora i luoghi deliziosi di passate Arcadie conservano segni laceranti e si sono ricoperti di ossari e cippi. In Galateo in Bosco Zanzotto individua una “linea degli ossari” che corre lungo il Montello e l’asse fluviale del Piave. Ossari diventati luoghi della negazione delle persone, ”dove in cassettini minuscoli / han ricetto le schegge dei giovinetti fatti fuori” (Il Galateo in Bosco, Milano, Mondadori, 1978, pag. 25). Pure la toponomastica ha assunto un alone al tempo stesso macabro e ammonitore (Isola dei morti, Valle dei morti).
Ma poi il Montello e il Piave anche come luoghi d’avventura di Zanzotto ragazzo, che attraversava il fiume al passo barca di Falzè e si addentrava in bicicletta tra stradine e viottoli del Bosco, la collina come la giungla di Salgari. La Storia vi aveva già fatto la sua devastante irruzione, ma la natura stava tornando a riprendersi il proprio.
L’irruzione della Storia, riverberatasi sul paesaggio con monumenti, sacelli e lapidi, nei decenni successivi si ripropone in altra veste nella furia consumistica dei weekendisti e dei frequentatori domenicali di trattorie e ambienti tipici, in “un affastellarsi immondo di stragi e di feste intestinali”.
L’Arcadia si scontra con il consumismo che rende tutti bisognosi del superfluo, viene aggredita da urbanizzazione dissennata, zone industriali e centri commerciali.
Da ultimi, vi irrompono gli effetti dell’ossessione del PIL, il caos disumanizzante del mondo globalizzato e supertecnologico (per molti aspetti promesse mancate), il turbocapitalismo, il risiko sgangherato della finanza mondiale. Per dirla con le parole di Zanzotto nella Conversazione con Marzio Breda (Milano, Garzanti, 2009):
“c’è un volano infernale che gira ed esaspera una certa idea di onnipotenza che poco ha a che fare con il destino umano”.
Ormai il “cretinismo del mercato” e il “fondamentalismo globalista” dominano su tutto, imperversa “la furia globale / tutta sbavante di poter lucrare / anche sul proprio funerale” (da Misteri climatici, in Conglomerati). Solo una piccola minoranza si preoccupa dello sconvolgimento climatico e della sorte del pianeta. Prima c’erano i campi di sterminio, adesso siamo passati allo “sterminio dei campi”, ma la logica sembra la stessa:
“5 pianeti occorrono alla fame dei terrestri
terroristi in favore della pletora”
(da Altri 25 aprile, in Conglomerati, Milano, Mondadori, 2009)
Un’Arcadia insomma, quella di Zanzotto, vista costantemente nella luce virgiliana del conflitto: un mondo di dolcezza/beltà/armonia in cui irrompono prima lo strepito delle armi (la guerra mondiale), poi il baccano e gli interessi beceri che sconquassano anche i pensieri e producono stravolgimento e negazione dell’umano. È un’Arcadia che non assume mai connotati definitivamente consolatori, anche se ostinatamente la poesia di Zanzotto ha sempre cercato il recupero di una armonia tra natura e cultura, tra bosco e galateo. Tale tentativo di ricomposizione si oppone al nichilismo e permette di ritrovare a tratti nella realtà quello che Zanzotto, riprendendo un termine della filosofia greca e cristiana, definisce logos.
Esiste cioè la forza sottile della razionalità, per cui la realtà ha comunque un senso, un fondamento.
Tuttavia questo logos-fondamento rimane inattingibile, impermeabile ad un recupero, data la persistente mancanza di coincidenza di realtà e rappresentazione, di soggetto e oggetto. Pur con la consapevolezza che l’uomo resta sempre scisso, solo la poesia può avventurarsi nel tentativo di ricongiungere a intermittenza res cogitans e res extensa. Ma ciò che scaturisce da questo tentativo resta sempre un “balbo parlare”, anche se implica un coinvolgimento completo e ad alto rischio psichico, un’autoimmolazione del poeta senza sicura contropartita. Alla base di questo sforzo generoso c’è soltanto un atto di fede nella poesia, alla quale spetta l’impegno di una ricerca fondante che miri a rinsaldare quello che nell’uomo e nel mondo di oggi è diventato un equilibrio assai labile.
”Il Comitato chiede le dimissioni dell’Assessore regionale all’Ambiente”
Nei vari quotidiani sono recentemente usciti numerosi comunicati stampa da parte di diversi attori interessati alla questione delle casse di espansione sul fiume Piave. Come Comitato desideriamo fare chiarezza, citando documenti pubblici incontestabili.
L’Ass. Bottacin evita accuratamente di menzionare la raccomandata del Ministero dell’Ambiente del 10 gennaio 2020, in cui si invita la Regione Veneto a condurre ogni necessaria verifica volta al pieno rispetto della Direttiva Habitat.
Nel marzo 2020 il Ministro dell’Ambiente invita l’Ass. Regionale all’Ambiente Ing. Bottacin ad adottare lo strumento dei Contratti di Fiume, raccomandando di garantire la valorizzazione dei territori fluviali ed assicurare il massimo coinvolgimento di comuni, associazioni e comitati. Il Ministro Costa puntualizza che la richiesta di finanziamento per la realizzazione delle casse a Ciano è una “proposta regionale” in seguito a un Piano “predisposto dalla Regione del Veneto”, quindi non per volontà né del Ministero, né dell’Autorità di Bacino (che dipende dal Ministero stesso).
La scelta di Ciano è stata infatti stabilita con il Piano delle Azioni e degli Interventi a firma del Commissario Delegato Dott. Luca Zaia, traendo la scelta dal Piano Stralcio Sicurezza Idraulica del 2009, ma invertendo la accertata priorità dei siti con “vizio di motivazione”, così come legalmente definita la voluta omissione di supporto giustificativo.
Infatti Il Piano Stralcio, unico studio ufficiale approfondito e dettagliato finora prodotto, aveva individuato come miglior soluzione il sito di Ponte di Piave.
L’Ass. Bottacin, nonostante questi atti ufficiali pubblici, continua ad imputare questa decisione al Governo, facendo credere che la Regione sia mera e innocente esecutrice. Anche se per assurdo fosse così, da un Assessore Regionale all’Ambiente ci aspetteremmo fosse egli stesso a chiedere al Governo di optare verso la migliore soluzione. Dovrebbe essere il nostro portavoce e miglior alleato nella difesa dell’ambiente e non il nostro maggior oppositore.
Facciamo notare anche che il Sottosegretario al Ministero dell’Ambiente Dott. Morassut non ha scritto alla Regione bensì al Sindaco di San Donà di Piave e nella sua missiva, considerata l’urgenza di mettere in atto soluzioni risolutive rispetto all’emergenza del rischio idrogeologico del territorio, dichiara si possa fare una cassa di espansione portando avanti il contratto di fiume in parallelo, senza mai indicare che la cassa sia da realizzarsi a Ciano anziché a Ponte di Piave e neppure che si possa evitare di rispettare le Direttive Europee.
Risulta inoltre evidente che la realizzazione di una sola cassa sarà opera più che sufficiente se verrà messo in atto con efficacia lo strumento del Contratto di Fiume e saranno attuate le altre soluzioni previste dal Piano Stralcio stesso, compresa la risoluzione delle criticità del tratto Nervesa-Ponte di Piave che non necessita di interventi faraonici.
Preme sottolineare che la progettazione delle casse a Ciano, per le caratteristiche dell’opera e i requisiti da rispettare, non potrà mai superare l’esame di una Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), a meno che non venga influenzata da forzature politiche.
Inoltre, quest’opera a differenza di Ponte di Piave, per i parametri non rispettati ed i tempi di esecuzione necessari, non potrà in alcun modo rientrare tra i progetti finanziabili con i fondi del Recovery Fund e comporterà invece l’incorrere in sanzioni europee per non aver rispettato le Direttive Ambientali.
A fronte di tutte queste considerazioni troviamo incomprensibili e sconcertanti le posizioni della Regione Veneto, dell’Ass. Bottacin e dei Sindaci di Ponte e San Donà di Piave, e di questo dovranno assumersene le responsabilità qualora si verificassero esondazioni con vittime nel prossimo decennio, in quanto le casse a Ponte di Piave verrebbero realizzate in minor tempo rispetto a Ciano, riuscendo così a garantire la sicurezza dei cittadini con numerosi anni di anticipo. In questo lasso di tempo 80.000 persone vivrebbero in sicurezza.
Da ciò deduciamo che la decisione di realizzare le casse a Ciano non è motivata dalla volontà di mettere in sicurezza i cittadini e il territorio bensì da altri interessi, che poco hanno a che fare con il bene della comunità.
Per quanto riguarda poi la idilliaca rappresentazione del parco del Piave che seguirebbe alla incontestabile devastazione dell’area, sentire un assessore all’ambiente esprimersi con tale noncuranza (Gazzettino 15/05/2021), proprio in prossimità della Giornata Mondiale della Biodiversità, sorvolando sul fatto che andrebbe irrimediabilmente distrutta un’area di elevatissimo pregio ambientale e di ricchissima biodiversità, protetta da Rete Natura 2000, suona davvero imbarazzante.
Nei cinque anni del suo mandato da Assessore all’Ambiente, dal 2015 al 2020, il Veneto ha consolidato tre grandi e tristi primati in tema ambientale: prima regione in Italia per cementificazione, prima regione per consumo di pesticidi e una delle regioni con il più alto inquinamento atmosferico al mondo.
In qualsiasi azienda privata un amministratore con questi risultati di gestione verrebbe “dimissionato”, non certo confermato per un ulteriore quinquennio e riteniamo quantomeno opportune le sue dimissioni.
Rispettosamente chiediamo ai Sigg. Prefetti di Treviso e Venezia, in qualità di rappresentanti del governo, presenti agli incontri tra le parti interessate intercorsi nei mesi di dicembre 2019 e febbraio 2020 – incontri a cui come Comitato ci è stato impedito di presenziare e in cui si è evitato accuratamente di presentare in modo opportuno l’alternativa – di vigilare affinché le Istituzioni perseguano la migliore soluzione da tutti i punti di vista così come definito dal Piano Stralcio del 2009, nell’interesse della sicurezza della comunità stessa, evitando sperperi di denaro pubblico, sanzioni dell’Unione Europea e la distruzione di ambienti naturali unici e irripristinabili.
Franco Nicoletti Presidente del Comitato per la Tutela delle Grave di Ciano
A causa del Covid-19 sentiamo un grande desiderio di aria e di spazio.
Terminata finalmente l’era arancione andiamo sulle Grave ed è finalmente un respiro a pieni polmoni, fisico e metafisico.
Aprile volge al termine, la primavera è già avanzata, ma secco e freddo prolungati l’hanno sicuramente scoraggiata; i prati sono ancora dorati e trasparenti, solo nelle bassure e negli avvallamenti, che hanno fatto tesoro della poca pioggia caduta, verdeggiano rami e rametti intricati, foglioline e germogli.
Avvicinandoci ecco però apparire delle aree più addensate e vive, di un giallo splendente, anzi di vari gialli. Appartengo a due specie che alle Grave sono tra le prime a fiorire, in piante isolate o più spesso a formare dei tappeti che spiccano sull’erba ancora secca.
Essi sono il citiso, un cespuglio imparentato con la ginestra, capace di sfidare le escursioni termiche stagionali protendendo con prudenza i suoi rami verso terra e meritandosi la qualifica di “strisciante”; il suo giallo è vivo, intenso e profumato.
Accanto vi è l’erba cipressina, di un giallo acidulo, pianta della famiglia delle euforbie, temprata a quasi ogni clima e tipo di ambiente anche per la sua dotazione in oli, gomma, resina. Le foglie ricordano il cipresso, produce un lattice caustico che la rende un cibo sgradito agli erbivori, e un nettare che invece attira gli insetti.
Qui è tutto un ronzio di impollinatori: api che danzano e bombi che dopo un pesante atterraggio si intrufolano nelle corolle, gialli nel giallo. Forse il trionfo di questo colore non è casuale: le piante hanno bisogno degli insetti per la riproduzione e dato il momento stagionale di penuria di individui e di specie, attirano l’attenzione dei pochi in circolazione esibendo i loro colori preferiti. Il pensiero si conferma quando, più schiva, compare tra erbe secche e cespugli la globularia dagli splendidi fiori violetti. Il blu pare sia il secondo colore preferito dai nostri.
Ci dirigiamo verso il fiume accompagnati per un tratto dai volteggi di una cedronella, ed ecco il Piave, che presenta le sue conquiste stagionali: ha scorazzato alla grande in sponda destra, mangiandosi un buon tratto di scarpata e, sormontandola, ha spazzato il bosco di ripa a salici e pioppi. Le tracce sono fresche: il greto di sassi bianchi si è ampliato, gli alberi sono festonati di paglie e trattengono dighe di ramaglie, alcuni penzolano a mezz’asta nel vuoto. Uno strato di sabbia fine e argentata copre il suolo. Per il momento è passata. I giovani pioppi hanno tenere foglioline, i salici hanno già il frutto, si ricomincia.
Il fiume prende e dà, facendo delle Grave un crocevia, un punto di incontro di specie “straniere”, e basta pensare alle globularie arrivate dalla montagna, e al citiso strisciante arrivato dai Balcani, che ritrovano il loro ambiente nelle sassose distese calcaree.
Ritornando sui nostri passi due licenidi, piccole farfalle in coppia, si attardano su un fiore di leguminosa, ancora gialla. Commentiamo che è ormai il tramonto, l’ora degli incontri. Ed ecco un cu – cu sonoro, vicino e ripetuto. Solleviamo la testa anche se, si sa, il cuculo non si fa vedere facilmente, ma in questa gelida e molto anomala primavera si cercano istintivamente segni di conforto. Ah! È arrivato!
Nella splendida cornice delle montagne della Val Belluna, nei tempi remoti, tra fitti boschi e ampi prati, viveva un singolare folletto chiamato Mazariol, famoso per la sua proverbiale astuzia, tanto da aver ingannato il re barbaro Attila. Era vestito tutto di rosso, compreso il caratteristico copricapo e le scarpe a punta. Si riparava nei “covoli,”cosi’ chiamati i “covi” (ricoveri) per ripararsi nella notte e nelle grotte, cavità queste, naturali fatte da erosioni e fenomeni carsici.
Sono tante le narrazioni che lo riguardano e tra le più note quelle che rivelano come si dedicava alla pastorizia ed era un ottimo casaro, tanto da aver inventato la ricotta e il formaggio Casatella Trevigiana in omaggio alla terra pianeggiante che lo ospitava durante la transumanza nei periodi piu’ freddi dell’inverno.
C’era però un posto privilegiato, posto allo sbocco delle montagne. Era un ampio “covolo” fatto a grotta lungo il fiume Piave, sulla roccia della sponda destra dove aveva fatto il suo laboratorio e magazzino e dove riponeva le sue casatelle di formaggio fatte con latte crudo. In quel periodo la fame era tanta e dilagava la pellagra, malattia, questa, che induceva alle allucinazioni e al sonno.
Il folletto Mazariol che era di buon cuore con i sfortunati ma terribile e dispettoso con i cattivi, appendeva sui rami degli alberi la casatella per sfamare i più sfortunati e farla conoscere e i più credendo fosse un miraggio vagavano oltre.
Oggi grazie a lui la Casatella trevigiana è un prodotto DOP (denominazione origine protetta) e approda nelle migliori tavole e il “covolo” abitato dal mitico folletto si presume dia in nome al bellissimo e ospitale paese Covolo di Piave.
Pochi però sanno che era sulle Grave di Ciano dove le acque erano più tranquille che il folletto Mazariol amava fare il bagno annuale e asciugare i panni. Una volta fattosi bello raccoglieva i “Mammai” la Stipe Pennata o Lino delle Fate e faceva il romantico con le Fate del Montello che proprio sulle Grave di Ciano amavano riunirsi per ballare e cantare, incantate pure loro dalla bellezza unica del posto.
Dino De Lucchi
Per altri racconti, vi invitiamo a visitare il sito internet dell’autore:
Che questa pandemia sia causata da un virus sfuggito da un laboratorio cinese o trasmesso all’uomo da qualche animale selvatico pare questione accertata (Gatti, 2021). Con certezza, si sa anche che la storia dell’uomo è sempre stata cadenzata da eventi pandemici, ma mai con frequenza tanto elevata quanto nell’ultimo secolo. Gli esperti avvertono che potrebbero arrivare crisi anche peggiori di Covid-19: si stima che in natura siano presenti un numero di virus “non conosciuti” tra 540.000 e 850.000, che potrebbero avere la capacità di infettare le persone.
Virus sempre esistiti ma sempre in continua evoluzione. Perché ora sono ancora più temibili?
Risposte a questa domanda le possiamo trovare nel report pubblicato nel 2020 da IPBES, Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services, massima autorità scientifica su natura e biodiversità, che descrive in modo dettagliato i nessi tra declino della biodiversità e pandemie.
In particolare viene dimostrato come la pandemia in corso sia causata dall’attività umana, in primis dall’aumento smisurato degli spostamenti, dalla distruzione degli ecosistemi, dall’erosione della biodiversità e dall’intensificazione degli allevamenti.
In altre parole l’uomo va a favorire il passaggio dell’infezione dagli animali selvatici a quelli allevati – o direttamente all’uomo – spingendosi con le sue attività dentro gli ambiti naturali, dentro le foreste, dentro ogni spazio sfruttabile che dovrebbe essere spazio esclusivo della natura o di una convivenza armoniosa e non certo predatoria delle risorse come invece avviene.
In particolare, il report sostiene che negli allevamenti intensivi, gli animali, essendo allevati per caratteristiche di produzione piuttosto che per resistenza alle malattie, mancano di quel grado di diversità genetica che fornisce resistenza e resilienza alle infezioni, questi animali agiscono da veicolo preferenziale del virus tra il selvatico e l’umano.
Orchide militare Ape sul timo selvaticoSfinge sui fiori di erba viperinaLepreVanessa del cardo Melanargia galatheaCardellinoPicchio neroMuschioTimo selvaticoFioritura di sedum tra i ciottoli Paesaggio Timo e GaliumOfride fior bomboNulla apparenteOrchidea piramidale Magredo con Stipa
È ancora vivo nei nostri ricordi il periodo di chiusura nei mesi di aprile-maggio del 2020. Sospesa ogni attività, la gente è stata costretta a restare in casa, al massimo entro 200 m dalla propria abitazione. Il cielo era pulito e terso come non mai e da quello che inizialmente poteva sembrare silenzio desolante, emergevano i suoni di altre attività, ben più armoniose, come il canto degli uccelli. In quel periodo, quasi onirico per noi umani, gli animali si riappropriavano del loro spazio.
Notizie di cervi avvistati in pianura verso Treviso, arrivati dal Piave, passati per il Montello e poi giù, istintivamente attratti dallo spazio finalmente libero. Questo cambio di ruolo, uomo confinato-animale liberato, porta a riflettere sull’enorme pressione che stiamo esercitando sulla natura, confinata in territori ristretti, rimpiccioliti e continuamente attaccati, erosi dal mai arrestato consumo di suolo e dal mito del fare ad ogni costo.
Il report sopra citato afferma che “l’ultimo secolo è stato un periodo di cambiamento ecologico senza precedenti, con drastiche riduzioni degli ecosistemi naturali e della biodiversità e altrettanto drammatici aumenti di persone e animali allevati intensivamente. Il rischio di pandemie può essere notevolmente ridotto, contenendo le attività umane che causano la perdita di biodiversità, aumentando il livello di conservazione della natura, allargando l’estensione delle aree protette esistenti, creandone delle nuove, riducendo lo sfruttamento insostenibile delle regioni del pianeta ad alto grado di biodiversità”.
Attenzione che non si parla solo di Foresta Amazzonica o di altri ecosistemi apparentemente lontani da noi. Si parla di tutta la biodiversità e di tutti gli ecosistemi, ad ogni scala dimensionale e in ogni luogo della Terra, incluso il Piave e il suo unicum ecosistemico dato dalle Grave di Ciano, che rappresentano l’unico avamposto del Veneto di ampie praterie steppiche (magredi), uno degli habitat a più elevata biodiversità in termini di ricchezza floristica.
Non è polemica ma semplice lettura della realtà se si sostiene che la direzione intrapresa non è quella indicata dalla scienza: da mesi si sente parlare solo del tentativo di contenere e controllare la malattia puntando su vaccini e terapie, mentre il tema della biodiversità è pressoché ignorato. In Veneto, prima regione italiana in termini di consumo del suolo, addirittura si parla da mesi di tamponi, vaccini e di grandi opere, come le Casse sulle Grave di Ciano, come se la tutela della biodiversità fosse argomento avulso da ogni strategia di prevenzione, strategia che la Scienza indica come strada obbligata per sfuggire all’era delle pandemie.
Le Grave di Ciano rappresentano uno dei pochi ambiti ancora dominati dai processi naturali, un luogo dove l’uomo dovrebbe entrare in punta di piedi, anche in rispetto delle tante anime dei soldati caduti durante il conflitto della prima guerra mondiale.
Il rischio idraulico va certamente gestito, ma secondo nuovi paradigmi, volti a optare per soluzioni diffuse che mirino a preservare la biodiversità e a dare spazio al fiume anche sacrificando territori produttivi e non assoggettandosi agli arroganti e miopi schemi di una pretesa “dittatura idraulica”.
La biodiversità non è solo poesia e bellezza, è fonte di servizi multipli, è soprattutto resilienza, capace di smorzare gli effetti negativi delle attività umane e di diminuire rischi come quello pandemico, ben più pericoloso, subdolo e costoso del rischio idraulico. Questo vale soprattutto per vasti ambiti naturali come le Grave di Ciano, la cui collocazione in un contesto fortemente antropizzato quale la pianura, diventa elemento di mitigazione importantissimo e imprescindibile per il bene di tutti.
È il 1800 e la repubblica di Venezia non esiste più da soli tre anni.
L’Impero Austriaco, nuovo padrone dei territori veneti, subito organizza il rilievo topografico degli stessi dando vita a quell’interessante e ricco documento che è la Kriegskarte del ducato di Venezia, edita in soli 8 anni, dal 1798 al 1805, tempi brevissimi per il tempo. Questa è una delle più antiche rappresentazioni in cui le Grave di Ciano appaiono a scala abbastanza grande da poter cogliere diversi aspetti costituenti.
La meraviglia è che il documento ci presenta un paesaggio abbastanza simile a quello attuale, con il letto principale a canali intrecciati gravante sulla sinistra idrografica, e l’ampia curva di Rivasecca e Ciano dominata da isole fluviali ben vegetate e separate da canali minori. Le Praterie del Conte Mezzana, il cui palazzo e masserie gravitavano attorno a Bosco di Vidor, ne fanno degli estesi prati, forse adibiti a pascolo.
Da Covolo fino al Capitèl dei Lòvi, diversi passi barca collegavano la riva di destra con quella di sinistra, come indicato anche dalle strade che da quest’ultima riva risalgono verso il Quartier del Piave. Tutta la parte in sinistra del fiume, tra questo e la scarpata che sale al Quartiere, apprendiamo dal tenente Birnstil, compilatore della carta, essere pascoli comunali (li Saletti).
Fig.1: stralcio della tavola XII.12 della Kriegskarte. Ghiaie, sabbie e suoli prativi ci mostrano un ambiente simile a quello odierno.
Il valore di questo documento sta proprio nel dettaglio che fissa – come un fotogramma – un momento, uno stato, di quello che forse è l’ambiente geomorfologico più dinamico che esista: il letto a canali intrecciati di un fiume a carattere torrentizio.
Ed è proprio questa forte dinamica che conferisce all’ambiente delle Grave il suo carattere di unicità: un letto molto ampio, costituito da un settore principale, dove il fiume si muove a canali intrecciati, quasi del tutto privo di vegetazione, e in destra un ambiente molto più stabile, soggetto ad inondazioni più o meno ricorrenti, piana naturale di sfogo ed esondazione durante le piene del fiume. Se ci inoltriamo da Ciano o da Rivasecca, in questo spazio golenale, troviamo ancora tutti quegli aspetti che ci suggeriscono il passaggio del fiume; dove con tracce più recenti, e dove in modo molto meno evidente, proprio delle barre (elemento di depositi fluviali mobili, che può stabilizzarsi per periodi più o meno lunghi) vegetate ed alberate.
La dinamica di questo ambiente resta inalterata per circa un secolo, dopodiché in una serie di anni ad abbondanti precipitazioni sia nevose che piovose si assiste ad una discreta riattivazione dei canali in destra, vie di naturale espansione delle piene.
1917: il Piave diventa prima linea nella Grande Guerra
E si giunge a fine 1917 con il Piave che diventa prima linea nella Grande Guerra, nel tratto da Pederobba alla Laguna di Venezia. In questo periodo il fiume è la terra di nessuno tra i due eserciti opposti, ma la sua dinamica irrequieta comporta il continuo aggiornamento cartografico del suo corso. Ad ogni piena (ed erano frequenti in un corso d’acqua privo degli attuali sbarramenti fluviali per prelievi irrigui ed energetici) i canali intrecciati degli ambienti a Grave cambiavano disposizione e i cartografi militari ne davano riscontro.
Fig. 2: il continuo aggiornamento cartografico del Piave testimoniato in tre stralci di carte austro-ungariche a scala 1:25.000. A sinistra piano d’artiglieria dello 11 giugno 1918 (ASFi, MMM, SC-214/10; n. 176). In centro piano del 25 agosto 1918 (ASFi, MMM, SC-214/8; n. 178) e a sinistra piano del 25 settembre 1918 (ASFi, MMM, SC-214/9; n. 177). Si noti il processo di aggiornamento che dal sovrimpresso cliché azzurro diviene parte della base topografica. I settori numerati sono altrettante zone- bersaglio per l’artiglieria durante eventuale fuoco di interdizione per scoraggiare il transito all’avversario
Il terzo stralcio di figura 2 ci indica un fatto curioso che ha avuto come teatro le Grave di Ciano nell’inverno 1917-18. Molte carte austro-ungariche, sulle Grave – che, val la pena di ricordarlo, erano terra di nessuno – riportano alcuni segni che testimoniano l’attività di pattuglia degli inglesi. Infatti, il settore del Montello fu presidiato dalla 41a e dalla 23a Divisione Britannica da dicembre ‘17 a marzo ‘18.
Ecco cosa accadeva nelle notti gelate di quell’inverno: ce lo racconta un fuciliere del XI Battaglione Northumberalnd, il soldato Norman Gladden. Val la pena di leggere:
La notte del 8 gennaio la compagnia ebbe l’ordine di inviare una pattuglia a perlustrare le difese del fiume. Fu posta agli ordini del nostro comandante di plotone e Westgarth e io venimmo scelti come serventi della mitragliatrice Lewis, un onore che non mi fece particolarmente piacere. Togliendoci delle nostre uniformi e di tutti i possibili segni di riconoscimento, indossammo delle tute di tela bianca per mimetizzarci sulla neve. Non prendemmo né l’elmetto né la maschera antigas, soltanto il fucile e una bandoliera. Westgarth portava la mitragliatrice e io le munizioni. Così bardati attraversammo la zona delle trincee: un gruppo di 15 fantasmi bianchi salutati dagli uomini dei nostri avamposti che ci auguravano buona fortuna senza invidia. Era una notte chiara: la neve candida rifletteva una specie di luce sulla distesa di ciottoli. Faceva molto freddo e non eravamo abbastanza coperti per difenderci dal gelo. Lasciandoci alle spalle le nostre sentinelle, con la raccomandazione di stare attenti al nostro ritorno, guadammo il primo canale: un torrente scivoloso di acqua gelida, profondo appena un palmo. La neve farinosa mi aveva gelato i piedi attraverso gli scarponi; ora il bagno ghiacciato mi penetrò fino alle ossa e mi intorbidi completamente le gambe. Il freddo di prima era caldo in confronto a questo. Continuai a camminare, sorpreso dal rumore che facevano i miei piedi insensibili urtando contro i sassi. Avanzammo con circospezione, attraversando altri piccoli ruscelli che scorrevano in canali separati nel letto del fiume. Ciuffi di arbusti rachitici spuntavano qua e là, dove il terreno rialzato formava delle isole più o meno permanenti in mezzo ai ciottoli. Ora il rombo del torrente veniva da tutte le direzioni ed eravamo letteralmente circondati dalle acque scroscianti: un’esperienza bizzarra che aveva del soprannaturale. L’aria gelida, tagliente attutiva le sensazioni. Sapevamo soltanto che dovevamo continuare a camminare per non lasciarci vincere dal torpore della notte circostante. Arrivammo all’ostacolo più difficile da superare: un corso d’acqua largo una trentina di metri ci tagliava la strada e cominciammo a guadarlo senza riflettere. All’inizio era poco profondo, come i ruscelli precedenti, ma arrivati nel mezzo il fondo scese e l’acqua turbinosa ci arrivò quasi alla cintola. Ora sarebbe sicuramente calata ma, a mano a mano che ci avvicinavamo alla riva opposta, l’acqua continuò a salire e la corrente ci investì con impeto travolgente. Colto di sorpresa, mi trovai ad annaspare, immerso fino al collo. L’uomo che mi precedeva era stato trascinato via dalla corrente ed era riuscito a stento a raggiungere una sporgenza della riva. A me accadde lo stesso. Per qualche istante persi completamente l’equilibrio e Mi sentii trascinare via come un turacciolo, senza poter far niente. Me la vidi brutta, perché non ero un gran nuotatore. Poi la riva mi venne incontro e proprio mentre ero preso in un mulinello, una mano si sporse e mi trasse in salvo sulla sponda ghiaiosa. Tutto accadde in men che non si dica. Fu una vera fortuna che la corrente ci trascinasse verso la riva perché, qualche metro più a valle, saremmo finiti nel corso principale. […] Andammo avanti ma con più cautela perché la nostra brutta avventura ci aveva piuttosto scossi. Al ritorno, bisognava riattraversare quel torrente vorticoso, e se qualcuno era ferito… […] Il cielo era una volta luminosa come si vede di rado nella nostra isola: il chiarore delle stelle faceva risaltare i cespugli bassi contro la neve e combinato col rumore dei nostri scarponi sui ciottoli, sarebbe bastato a rivelare la nostra presenza a una pattuglia nemica che si aggirasse nei pressi. In realtà, eravamo soli là fuori, anche se allora non potevamo saperlo. Ormai il rombo del corso d’acqua principale superava ogni altro rumore. L’ufficiale andò avanti in perlustrazione con un sottufficiale e una staffetta. La loro assenza fu di breve durata, ma nell’attesa credetti di morire di freddo. Avevano constatato che il fiume, poco più avanti, era così gonfio per le piogge recenti e così turbinoso da costituire una barriera invalicabile per noi e per il nemico, perciò non ci avevano molestati. Ben lieti di rimetterci in cammino, tornammo al torrente appena guadato e, dopo un breve consiglio di guerra, fu deciso di formare una catena tenendoci per le braccia e di tagliare la corrente. Manovra che ebbe pieno successo e ci servirà di lezione per il futuro. La corrente ci trascina via come prima, ma reggendoci a vicenda non avemmo difficoltà a raggiungere l’acqua bassa.
Non so dove trovai la forza di percorrere l’ultimo tratto di strada. Il mio abbigliamento sommario era inzuppato d’acqua gelata e rendeva il mio corpo intirizzito. Il freddo aveva annullato in me ogni altra sensazione. Ricordo vagamente di aver attraversato le nostre trincee e di aver udito voci isolate che venivano dall’ignoto, e aver salito a tentoni gli scalini che portavano alla strada e di essere entrati in una stanza che mi sembrò il paradiso. Eravamo al comando di Battaglione e parecchi recipienti di acqua bollente davano al locale l’aspetto di un bagno turco. Varie figure in divisa cachi mi aiutarono a togliermi di dosso i cenci fradici e l’acqua calda cominciò subito a fare effetto.
Quest’avventura non fu unica, come del resto si capisce da questa memoria. I soldati affineranno la tecnica per affrontare le gelide notti e le più ancor gelide acque, cospargendosi di grasso, facendo uso di corde e allacciandosi a catena umana. Molte volte, quando riuscivano ad attraversare tutti i rami del Piave, tornavano con qualche vedetta austro-ungarica fatta prigioniera.
Quest’attività partiva da Ciano e attraversava il Piave in direzione nord. Ed era talmente frequente e molesta che la cartografia austriaca la riportò nelle sue mappe, segnando il sentiero seguito nel primo tratto (Fussweg, in rosso ed evidenziato in figura 3) fino a raggiungere un’isola fluviale da cui partivano le scorrerie (Englander nest [nido degli inglesi], in tedesco e Anglosziget [isola degli inglesi], in ungherese: in blu evidenziato in figura 3). Uno dei pochi casi in cui è stata documentata in carta attività di pattuglia.
Fig.3: carta austro-ungarica (ASFi MMM P-214/9) che rappresenta le disposizioni avversarie e, evidenziati in giallo, i segni dell’attività di pattuglia notturna effettuata dagli inglesi. Questi partivano in plotone da Ciano e arrivavano alla linea degli avamposti avversari facendo il percorso più lungo, attraversando tutte le Grave.
Durante la Battaglia del Solstizio, nel giugno ’18, sulle Grave non fu tentato l’attraversamento del fiume, in forza proprio del grande spazio scoperto da percorrere: gli austro-ungarici getteranno i loro ponti di barche da Falzè di Piave in giù (in 9 giorni di battaglia verranno costruiti e ricostruiti circa 70 ponti). Sarà durante l’ultima grande battaglia, quella del 24 ottobre’18, nota col nome di Battaglia di Vittorio Veneto, che un ponte di barche italiano sarà gettato a più riprese – sia per la forte corrente del fiume sia per l’efficacia dell’artiglieria austro-ungarica – davanti al Buoro di Ciano, laddove le Grave si restringono e il Quartier del Piave si avvicina al Montello.
Ci furono momenti tragici in cui i reparti italiani resteranno isolati tra il fuoco e l’acqua, col solo soccorso dei biplani che si abbassavano a gettare sacchi di viveri e munizioni. È in questi primi due giorni che l’Isola Verde, così denominata per la stabilità della sua vegetazione arbustiva, si coprirà letteralmente di cadaveri e prenderà il nome che ancor oggi ricorda quell’epopea: l’Isola dei Morti.
Fig. 4: carta britannica del gennaio 1918 (ASFi MMM P-178), disegnata su base topografica italiana, leggermente adattata. Si coglie l‘estensione delle Grave, i nomi gergali delle isole fluviali dati dai soldati italiani, i rami principali del Piave. Una bellissima distesa naturale, affidata alle dinamiche del Piave.
Fig. 5: dall’osservatorio di Monte Fagarè, sopra Cornuda, verso la Grave di Ciano. La zona più scura tra le due scritte “F. PIAVE” è una larga barra fluviale ben vegetata allora nota come Isola Verde. Dopo La battaglia finale dell’ottobre 1918 assumerà il triste nome di Isola dei Morti.
In conclusione, un evento così grande e devastante come quella guerra, non avrà recato una minaccia seria a quell’ambiente, pur lasciando un’innumerevole quantità di proiettili esplosi e non, e chilometri di filo spinato. Il Piave attraversò anche questa follia umana, continuando la sua strada, illuminando il territorio di vita e meraviglia, mentore ancora inascoltato.
Francesco Ferrarese
Bibliografia essenziale:
Ferrarese F. (2017) Il Montello nella Miscellanea di Mappe Militari della prima guerra mondiale. In: Bondesan A., Scroccaro M. (a cura di). Cartografia militare della prima guerra mondiale. Cadore, Altopiani e Piave nelle carte topografiche austro-ungariche e italiane dell’Archivio Di Stato di Firenze. Antiga Edizioni, 2017.
Gladden N. (1977) Al di là del Piave. Garzanti
Rossi M. (a cura di) (2005) Kriegskarte, 1798-1805. Il Ducato di Venezia nella carta di Anton von Zach (Das Herzogtum Venedig auf der Karte Antons von Zach). Fondazione Benetton Studi e Ricerche. Grafiche V. Bernardi.
Conosco bene le Grave del Piave, oasi di vita e pace, dove ogni angolo è un invito a “sostare” per lasciarsi avvolgere dalle voci della natura. Ogni passo diventa un’occasione autentica per “connetterti” con quella natura che per tutti, credenti e non, è “parte integrante di noi stessi”.
San Francesco d’Assisi, grande camminatore, un anno prima della sua morte (1226) scrisse quel Cantico delle Creature che a ragione viene definito il “più bel brano di poesia religiosa dopo il Vangelo”. Il componimento nasce dopo una lunga notte di sofferenza. Ormai il corpo di Francesco era consumato dalla malattia, ma lui sente semplicemente di “lodare il Signore e per mia consolazione”. Quel Cantico è un invito dell’uomo a riconciliarsi con se stesso, con gli altri, con la natura e con Dio stesso. Un Cantico che trasmette un forte messaggio di “fraternità cosmica”: tutto rimanda al Creatore, tutto ciò che è bello, vero e buono è espressione della Creazione. Un Cantico che ci insegna che la natura colta nella sua profondità – “contemplata” – rivela e parla di se stessa insegnando all’uomo che il suo essere profondo si realizza nella relazione: con se stesso, con gli altri, con la natura.
Il 18 giugno 2015 un altro Francesco, Papa Bergoglio, firma una enciclica (una lettera pastorale ai Vescovi della Chiesa Cattolica) che già nel titolo, “Laudato si’”, riprende il messaggio del Santo d’Assisi per evidenziare che oggi la natura è drammaticamente “calpestata nella sua dignità”.
San Francesco allora anticipò quell’ecologia integrale che pone l’uomo non nella condizione del consumatore o manipolatore, ma del custode.
Anche Papa Francesco vede in questa rinnovata ecologia integrale la strada da perseguire oggi per una nuova responsabilità sociale riconoscendo che “l’ambiente è un bene collettivo, patrimonio di tutta l’umanità e responsabilità di tutti” (95).
Sono in molti a portare l’attenzione sulle proposte che il Papa offre su come affrontare seriamente la sfida del futuro per risolvere i problemi ambientali. Certo questa lettura “politica” del documento di Papa Francesco ha occupato i titoli dei giornali, ma non possiamo dimenticare che questo documento in primis ha una finalità magistrale, pastorale e spirituale. Sappiamo che questi documenti del Magistero sono spesso il prodotto finale di un lungo processo di “ascolto” dei tanti contributi di esperti e non. Il Papa poi è il redattore finale e dal suo ruolo magistrale, indica orientamenti per i credenti e non solo.
È forte l’appello che il Papa fa ai credenti: la “sorella terra” oggi grida per esser da troppo tempo “violata e distrutta dagli essere umani”, una terra “fragile ed indifesa” che chiede attenzione e premura. Un grido quello della terra che si unisce a quello dei poveri del mondo, spesso calpestati nella loro dignità ed umanità. Queste grida hanno bisogno di esser intercettate ed ascoltate, invocano risposte, azioni adeguate, cure sollecite: terra e poveri unite nei loro profondi drammi.
È interessante osservare l’attenta analisi dei problemi che affliggono la Terra, la nostra “casa comune”. L’inquinamento, i cambiamenti climatici, la questione dell’acqua, la perdita di biodiversità, il deterioramento della qualità della vita umana e degradazione sociale. Il contributo che la scienza oggi dà alle problematiche ambientali risulta esser indispensabile anche per descrivere bene la situazione in atto ed individuare possibili vie d’uscita “pratiche”. Una crisi ambientale che va affrontata al fine di non compromettere il futuro dell’umanità.
L’impianto antropologico alla luce della Rivelazione è sempre presente nel documento con una costante attenzione al linguaggio simbolico/evocativo che la Parola di Dio offre ad ogni uomo. Da qui il richiamo al racconto della Genesi (la responsabilità del “coltivare e custodire” il giardino del mondo), all’insegnamento del Vangelo che è un continuo invito ad una comunione con tutti gli esseri umani, ad avere cura dell’altro/a che è prossimo a noi vivendo quell’amore vicendevole che Gesù ha vissuto in prima persona. La natura occupa i nostri spazi e i nostri tempi, fa parte del nostro essere creaturale e nella sua meraviglia “svela” l’invisibile e l’eterno.
Lo sforzo del Papa è comprendere prima di tutto le ragioni profonde di questa crisi ambientale. Per il Pontefice il dominio tecnocratico ha portato alla distruzione della natura e allo sfruttamento dei più poveri. Egoismi di pochi, pretese di alcuni di dominare sui più deboli e sulla stessa terra, esigenze economiche che non rispettano la dignità delle persone considerandole a volte semplici oggetti (e ciò vale anche per la natura), la cultura dello “scarto”.
Il tema ecologico dunque va di pari passo con il grande tema della giustizia. Da qui l’esigenza di una nuova ecologia integrale. Si tratta per certi versi di una visione “olistica” dove le problematiche e le vie di soluzioni s’intrecciano tra loro: “tutto è collegato”! Dove il sistema terra/ambiente, persone/popoli, contesti urbani/natura non sono a sé stanti ma si “connettono tra loro” e richiedono azioni “giuste”. Da qui un forte appello ad una “ecologia della vita quotidiana” che promuova la “qualità della vita” nei diversi ambiti relazionali (spazi pubblici, abitazioni, trasporti).
Affrontare le diverse problematiche di questi ambiti in una “logica d’insieme, di correlazioni” significa oggi impegnarsi in una nuova idea di bene comune che garantisca ad ogni esser umano una vita “buona, giusta e positiva” nei diversi contesti ambientali, sociali, economici.
La concretezza dell’enciclica è evidente là dove il Papa propone anche ai governi e agli organismi proposti alcune soluzioni improntate al dialogo internazionale che porti ad una governance globale per affrontare le diverse criticità dei beni comuni globali. Dialogo tra le diverse parti, capacità di cura, creatività generosa, trasparenza nei processi decisionali, uso sostenibile delle risorse, approccio integrale della stessa politica.
Di fronte a questo dramma globale occorre un altro “stile di vita” che vada al di là dell’individualismo e relativismo e alle logiche di dominio, ma azioni “rigenerative”. Il Papa riconosce un ruolo importante all’educazione ambientale, a quelle semplici prassi di attenzione all’ambiente (si pensi la riduzione dei sprechi dell’acqua o della luce), a quelle azioni di “rete comunitarie” che sono davvero segnali di autentica conversione ecologica.
Se tutto è relazione, se il nostro “stare con la natura significa esserne parte di essa” allora sentimenti come la gioia, pace, bellezza, speranza si alimentano attraverso la “carità” che si esprime anche nella “cura della natura” contro le logiche dello sfruttamento e del dominio.
Allora sì che quelle “grida” della Madre Terra saranno ascoltate, allora sì impegnarsi per il Bene Terra significa rinnovare quella grande “alleanza” che, per i credenti di qualsiasi religione, Dio ha posto con l’uomo. Quel “giardino è un dono che va coltivato e difeso”. La “cura” di quel giardino significa preservare un bene “per” consegnarlo alle nuove generazioni integro e far sì che l’arcobaleno della pace, segno della bellezza e dell’armonia, possa fiorire e lasciare il suo segno per sempre.
Le due finestre della camera dove sono nato, nella mia vecchia casa a Ciano, guardano a nord, verso la grande ansa del Piave. Dalle robuste braccia di mia madre, è probabilmente il primo paesaggio che ho visto: allora il greto – da qua, amplissimo, si estende fino a Vidor, e tale continua per buon tratto verso levante – era una bianca distesa di ghiaie, solcata dai rami del fiume, sempre mutevoli a seconda della portata d’acqua, azzurri come il cielo che riflettevano. Tale rimase fino agli ultimi anni ’60 del secolo scorso.
Poi, o per un sostanzioso prelievo d’acqua a monte, o per gli scavi incongrui che modificarono antichi alvei, o per altri motivi che mi sarebbe arduo considerare tecnicamente, qualcosa cambiò, e quell’immenso ghiaione “autopulente” (anche qualche tenace arbusto che si fosse azzardato a spuntare veniva, dopo un po’, spazzato via) mutò radicalmente aspetto, colonizzato da una vegetazione che si è fatta rigogliosa e fittissima, e che comprende anche spettacolari alberi d’alto fusto.
Quello che più sorprende è la rapidità con cui tutto si è svolto, considerando che si tratta di un caso – abbastanza raro – di risposta della natura a modifiche dell’ambiente provocate dall’uomo, e non, una volta tanto, di un paesaggio defunto, devastato dall’antropizzazione. Tant’è che molti animali – dai grandi volatili alle minuscole arvicole – ne sono stati attratti e lo hanno eletto a loro dimora: e così questo “nuovo” ambiente è diventato spontaneamente un ecosistema complesso, meritevole (ancor più di questi tempi) di accurata protezione e sorveglianza.
Scriveva una cinquantina d’anni fa l’Amico Benito Buosi, allora presidente dell’ E.P.T. di Treviso:
…Non si tratta di conservare in modo immobilistico – col rimpianto di ciò che fu e che non potrà più essere – né di sottrarre l’ambiente all’uomo. Si tratta, anzi, di assicurarglielo in modo duraturo, perché in esso rinvenga l’itinerario della sua storia e le ragioni attuali di una vita che non voglia autodistruggersi.
L’osservazione si riferiva alla decomposizione del paesaggio rurale, ma è assolutamente pertinente anche al caso delle “Grave”. Vivere in armonia con il territorio è, assieme, vantaggio e privilegio.
“Effetti del buon governo” intitolava un suo affresco nel palazzo comunale di Siena Ambrogio Lorenzetti: estrapolando l’immagine di un tempo arcaico, ci si ponga il quesito se – e quanto – il rispetto del paesaggio ci aiuti a vivere e a crescere con buon senso e buon gusto, con l’amore che è generato dall’armonia, con l’intelligente premura di proteggere ogni nostra “piccola Patria” per quelli che verranno dopo di noi. Diceva Bepi Mazzotti – che, bontà sua, mi onorò di simpatia e stima – :
…Dobbiamo difendere tutto il paesaggio, la campagna nostra, le spiagge del mare, i lungolago, i laghi stessi, le colline, i monti. Dobbiamo difenderlo da noi stessi, dal nostro egoismo, dalla nostra cecità, dalla nostra incomprensione, dalla insensibilità, dal cattivo gusto.
Premonizioni di intellettuale o tragica realtà? È proprio in questi ultimi 50 – 60 anni che si è insultata la nostra “piccola Patria”. C’è un libro – temo ormai introvabile – dello stesso Mazzotti (“Immagini della Marca Trevigiana”) fatto, appunto di fotografie, che solo i vecchi come me riescono a decodificare: in pochi anni è tutto cambiato (in peggio) e “quella” Marca Trevigiana sembra mai esistita. Naturalmente, per gli irriducibili appassionati – come me, e non chiamateci nostalgici – la memoria di questo mondo perduto è palpitante. Con un’espressione di moda, direi che è nel nostro DNA.
Così, quella che vidi da infante è pur sempre – e rimarrà! – l’immensa grava bianca, elemento cromatico su cui compitai moltissime rappresentazioni pittoriche, da quando ebbi coscienza di un talento fortunato che mi consentiva di esprimere – anche attraverso i colori – immagini ed emozioni. Le bianche Grave, dunque, come elemento peculiare e distintivo del mio luogo di origine, come fu ed è ancora il bel campanile di Ciano, svettante sulla campagna ai piedi del Montello, a rassicurarmi e dirmi che là vicino c’è anche la mia amatissima casa.
Certo, qui il discorso si amplia: la “piccola Patria” è certamente comune forma di ispirazione e di espressione di tanti artisti, spesso richiamata nelle loro opere. Non sembri irriguardoso o presuntuoso l’accostamento ma, solo per citarne alcuni di un periodo storico particolarmente florido di ingegni per noi Veneti, penso ai Bellini, a Tiziano, a Cima, al Paolo Veronese di villa Barbaro, al fantasioso Carpaccio, o a Giorgione per quel poco che visse, al mistico Lotto, che inserivano nei teleri paesaggi delle loro terre d’origine: del resto, allo stesso Leonardo, quando ritrasse la Gioconda, piacque mettere sullo sfondo un paesaggio in cui, forse, era cresciuto. Io sono convinto che vi sia un solido legame fra l’artista e il paesaggio delle sue origini.
Con quanta emozione ho tante volte raffigurato il “giro del Piave” che certamente vedeva Gino Rossi nella sua tribolata vita Montelliana! È rimasta, nei miei quadri, l’immagine delle Grave bianchissime, coi rigagnoli verdi-azzurri d’acqua, con lo sfondo dei monti. C’è un acquerello di Sante Cancian che ritrae il Piave al ponte di Vidor: diventò la illustrazione di copertina di un altro meraviglioso libro di Bepi Mazzotti (Piave, Grappa, Montello) e rappresenta esaurientemente il “Piave della memoria”.
Frontespizio pubblicazione “Piave Grappa Montello” di Giuseppe Mazzotti – Istituto Geografico De Agostini Novara – maggio 1938 acquerello di Sante Cancian
Questa indimenticabile ghiaia bianca compare anche in tanti miei paesaggi Montelliani: talvolta è solo un bianco segno lontano, per dare profondità alle doline dei primi piani; ma riappare protagonista in forme quasi verticali (come sembra prospettarsi da certi speroni sopra il greto) o diventa idea (o ricordo?) in altri dipinti ove la difficoltà dell’informale trova sostegno in riferimenti grafici già sperimentati.
Dunque, è chiaro che io rimpiango le bianche ghiaie: ma una provvidenziale curiosità mi spinge ad osservare le Grave come sono adesso: sembrano i “magredi” del Tagliamento o del Cellina, come li raffigurava, con segno nitido e forte di grafico raffinato, il friulano Zigaina. Non più, dunque, rami azzurri allo scoperto, ma acque quasi nascoste nella vegetazione, boschetti, pascoli, cespugli: mi va bene tutto, anche se non ha la suggestione del primo amore (la grava bianca).
Ma, a scombussolare tutto quanto, mentre si discute se le Grave siano il posto adatto per costruire vasche di contenimento delle piene del fiume (chi dice sì, altrettanti dicono no), con la prospettiva di una specie di muraglia cinese in cemento alta 8 metri (che sarebbe la fine, estetica e funzionale, delle Grave di Ciano), da almeno un paio d’anni questo territorio promosso a Zona di protezione speciale, Zona speciale di conservazione e area Wilderness è utilizzato da elicotteri militari per esercitazioni – anche notturne – con evoluzioni o stazionamenti a quota radente, atterraggi e sorvoli a circuito. Incredibile, vero? Non è un controsenso clamoroso? Eppure, se ci fossero state tempestive proteste, forse questa incongrua e indisponente attività sarebbe cessata. È come se un vandalo mettesse un aereo con la scia di condensazione in un cielo del Tiepolo, e nessuno trovasse da ridire.