Chiediamo di bloccare i lavori di avanzamento per il progetto denominato “Casse di espansione per le piene del fiume Piave in corrispondenza delle Grave di Ciano” situate nel Comune di Crocetta del Montello.
Opera il cui costo complessivo è stato stimato in 55.3 milioni di euro e la cui fase progettuale è già stata finanziata fino al livello esecutivo per un importo di euro 1.651.700 con procedura di gara fissata per dicembre 2019.
Le casse di espansione, come si evince dal progetto preliminare, prevedono lo scavo di un bacino di laminazione stimato in 35 milioni di metri cubi distribuiti su 555 ettari, e la costruzione di 13,5 km di muri in c.a. alti fino ad 8 metri delimitanti quattro vasche contigue.
Planimetria delle casse estratta dallo studio di fattibilità redatto dal Regione del Veneto
IL PROGETTO È OBSOLETO E DISTRUTTIVO
La direttiva europea 2000/60/CE “Direttiva Quadro sulle Acque” da alcuni anni ha introdotto un approccio diverso considerando come risolutivi gli interventi che riguardano l’intero corso di un fiume. L’applicazione di tale approccio sistematico per la risoluzione delle problematiche fluviali è già stato realizzato nelle regioni alpine confinanti. Lì si è dimostrata tutta la sua efficacia, ottenendo azioni di “rinaturazione” e di “rivitalizzazione” fluviale. In Austria, Germania, Svizzera, Trentino Alto Adige, le opere di protezione dalle piene sono integrate con la riqualificazione del paesaggio e tessono contemporaneamente le condizioni per il raggiungimento o il mantenimento del “buono stato ecologico“ del fiume, come prescritto dalla direttiva stessa.
L’esatto contrario di quanto il progetto citato andrebbe a compiere:
la distruzione di un ambiente protetto a livello europeo da Rete Natura 2000 come Zona di Protezione Speciale (ZPS IT 3240023 Grave del Piave) e Zona Speciale di Conservazione(ZSC IT 3240030) per l’alto valore naturalistico e di biodiversità che lo contraddistingue, con la conseguente irreversibile perdita di flora e fauna preziosissime e di un paesaggio unico, naturalmente formatosi e già peraltro minacciato da interventi spesso non ispirati alla conservazione di un bene comune;
la lacerazione dell’assetto socio-urbanistico dell’area prospiciente le Grave di Ciano, caratterizzato dalla presenza degli storici borghi di Rivasecca, S. Nicolò, Belvedere, Gildi, Botteselle, S.Urbano, S. Margherita e Santa Mama. Questi primi nuclei abitativi sorti lungo le sponde del fiume, testimoni della intensa relazione tra i loro abitanti e il Piave, luoghi di attracco degli zattieri che approdavano ai piedi del Bosco Montello per trasportare poi il legname verso la Serenissima, vedrebbero drammaticamente reciso il loro millenario legame con il corso del fiume. Sarebbe così reso vano lo sforzo intrapreso negli anni recenti di recuperare i borghi rivieraschi per l’importante riqualificazione dell’area;
la deturpazione del vasto e suggestivo paesaggio che dal Montello, attraverso le Grave, si protende verso le Prealpi. Un paesaggio che sarebbe perso per sempre e ciò in contrasto ad ogni attuale indicazione di tutela urbanistica;
la profanazione della memoria storica. Indiscusso è l’alto valore storico dell’area a livello nazionale ed internazionale: teatro di azioni decisive della Prima Guerra Mondiale, qui, tra Piave e Montello sono state condotte le valorose azioni degli Arditi e si è compiuto il sacrificio di migliaia di giovani vite.
Sarebbero così irreversibilmente disperse risorse fondamentali, irrinunciabili per la ripresa economica di un intero territorio, compromettendo nuove, importanti prospettive di sviluppo.
Grazie alle valenze naturalistiche, paesaggistiche e storico-culturali, alla presenza di pregevoli opere artistiche e unitamente alla ricca offerta eno-gastronomica, quest’area potrebbe davvero essere un nodo focale di un sistema di turismo diffuso, sostenibile, capace di rivitalizzare l’economia in molteplici settori.
Peraltro essendo le Grave di Ciano e il Montello parti di un unico, complesso, delicato ecosistema geo-morfologico strettamente connesso, un intervento così impattante su di una parte del sistema potrebbe ingenerare un pericoloso squilibrio, con conseguenze difficili da prevedere per l’intera area.
Consapevoli e non certo insensibili alla necessità di garantire la sicurezza nel Basso Piave, chiediamo tuttavia si scelga l’approccio introdotto dalla Direttiva Quadro sulle Acque 2000/60/CE che mira a ricostituire il sistema integrale del fiume coniugando sicurezza idraulica e conservazione dell’ambiente.
Tutti noi firmatari ci sentiamo responsabili del nostro territorio, profondamente innervato nella storia e nell’identità collettiva della comunità, così unico dal punto di vista naturalistico, storico, culturale e per questo tanto prezioso. Per preservarlo non possiamo quindi esimerci dal lottare contro progetti così devastanti. E’ nostro dovere, anche verso le future generazioni.
Luca Mercalli, climatologo, meteorologo e divulgatore scientifico, intervistato il 22 febbraio.
Durante una visita al Quartier del Piave per ragioni di lavoro, al noto meteorologo Luca Mercalli è stato illustrato il paesaggio del Piave e indicando l’esteso terrazzo delle Grave di Ciano gli fu accennato al progetto di trasformazione che potrà sconvolgere l’habitat. Gentilmente il meteorologo si rese disponibile per una chiacchierata e fummo messi in contato con lui. Ecco in sintesi i concetti espressi da Mercalli.
“Premesso che non conosco il caso specifico delle Grave di Ciano, senz’altro come regola generale per tutto il territorio, in particolare in quello sovraffollato, sovra-costruito, sovrautilizzato, la cosa più intelligente da fare, forse, è proprio NON FARE: questa la vera salvaguardia. Qualsiasi cosa si faccia va a peggiorare la situazione, aumentando la vulnerabilità del territorio stesso e la compromissione delle poche aree di biodiversità ancora rimaste. Bisogna riflettere se non sia meglio non fare piuttosto che fare peggio. Sicurezza idraulica significa lasciare spazio alla dinamica naturale con aree dove si insediano ecosistemi, divenuti sempre più rari.”
“La realizzazione di casse di espansione non sarà risolutiva ma parzialmente efficace. Esperienze in ambito nazionale (Trentino-Alto Adige) e internazionale fanno tornare i torrenti al loro ambito naturale. Spesso l’opera idraulica sposta a valle o altrove il problema e non lo risolve.“
“Tra l’altro, i cambiamenti climatici rischiano di far nascere opere idrauliche già vecchie, perché progettate con parametri di anni fa. Il rischio è di compromettere e non risolvere, quindi a maggior ragione la soluzione sarebbe ancora quella di allontanarsi dal fiume.“
“Il territorio naturale o naturalizzato assolve la funzione di stoccaggio di carbonio e biodiversità, la biodiversità è già sotto pressione dal clima se distruggiamo quello che resta, il danno diventa irrecuperabile.
“Io ormai fra poco cedo sommerso dalla disperazione di tutta Italia. Un riferimento a livello nazionale non esiste più.“
Intervista e adattamento del testo a cura di Francesco Ferrarese e Katia Zanatta
Il richiamo al lupo è insito nel titolo di queste note: nella forma dialettale dei nostri luoghi, anche se devo dire che il dialetto va progressivamente sparendo, il lovo (o lou) è il lupo, animale che, di questi tempi, sta riaffacciandosi nel territorio montano con qualche puntata in pianura.
Le cronache se ne sono occupate abbondantemente poiché il lupo ha sempre avuto nell’immaginario collettivo una connotazione negativa. Sono abbastanza vecchio per ricordare la sollecitazione del genitore a consumare velocemente la minestra “sennò il lupo te la mangia”. Penso che tale affermazione si possa ricondurre ad uno dei tre animali selvatici che impediscono a Dante di compiere il suo viaggio nell’aldilà, la lupa, simbolo della cupidigia, senza dimenticare che, abitando nei pressi del bosco Montello, il riferimento al lupo costituiva lo spauracchio per antonomasia.
Come si fosse giunti al connotato negativo nei confronti dell’animale è veramente singolare.
La larga diffusione del lupo nell’emisfero boreale ne ha favorito l’interesse di tutte le popolazioni con diversi punti di vista. I due più famosi gemelli della storia sono stati allattati da una lupa.
Romolo e Remo allattati dalla lupa – Pietro Paolo Rubens 1610 – Musei Capitolini
Quale immagine di pacifica commistione uomo-lupo migliore di questa?
Già l’uomo delle caverne conosceva il lupo o quello che poteva essere un suo antenato. Da alcuni rilievi della grotta di Font de Gaume (nel sud-ovest della Francia) è stato tratto il disegno riprodotto qui sotto.
Pittura policroma della caverna di Font De Gaume (Sud-Ovest della Francia) – disegno di Henri Breuil del 1915
Secondo la cultura religiosa egizia molte divinità apparivano con sembianze animalesche. Ripropongo l’immagine di Anubi con testa sicuramente di un canide (chi dice sciacallo chi dice lupo), dio dei morti, nume tutelare che presiedeva all’imbalsamazione.
Anche nella mitologia greca il lupo ha un ruolo di rilievo. Se da un lato viene considerato incarnazione di Marte e quindi simbolo di distruzione, dall’altro è il simbolo di colui che traina il carro del sole. Il bosco sacro che circondava il tempio di Apollo era chiamato lukaion; da questo termine deriva la parola liceo, ricordando come Aristotele fosse solito tenervi le sue lezioni.
L’evoluzione dell’uomo e del lupo è andata di pari passo ma gli atteggiamenti dell’uomo nei confronti del lupo hanno avuto fasi alterne.
L’uomo di cultura venatoria e guerriera ha apprezzato le doti di cacciatore del lupo mentre per i popoli agricoltori e allevatori è stato sempre visto come una minaccia per il bestiame e quindi combattuto con ogni mezzo.
Lo stretto contatto con la natura in cui viveva l’uomo derivava dal fatto che dove finiva il villaggio iniziava la foresta. Era normale quindi la vicinanza quotidiana con gli animali. Tra uomo e lupo, due carnivori per eccellenza, lo scontro divenne inevitabile.
I cambiamenti ambientali resero il lupo più aggressivo perché cacciato ed invaso nel suo habitat. Oltre alle considerazioni di natura ambientale dobbiamo rilevare che con la diffusione del Cristianesimo, il lupo, animale mitico delle popolazioni pagane, è stato oggetto di una campagna di demonizzazione diventando così il simbolo del male.
Il lupo che terrorizzava gli abitanti di Gubbio, diventa mite per intervento di S. Francesco. Il Santo riesce a dialogare con l’animale e a farlo pentire pubblicamente delle sue malefatte, in cambio di accoglienza in città. S. Francesco dialogava con tutti gli esseri viventi ma, in questo caso, ci sembra che il lupo rappresenti la figura di un bandito pentito.
San Francesco e il lupo -dal ciclo degli affreschi nella chiesa di San Francesco a Pienza
Altre leggende antiche raccontano della metamorfosi degli esseri umani in lupi, nelle notti di plenilunio. Si narra che diverse persone finirono al rogo per licantropia, condannate a morte dagli inquisitori. Si trattava di innocenti che, sotto tortura, si proclamavano licantropi e affermavano di aver stipulato un patto col diavolo.
Peter Stubbe fu il protagonista di una serie di avvenimenti raccapriccianti che si svolsero nei dintorni delle città tedesche di Colonia e Bedburg verso la fine del XVI secolo. In base a quanto riportato da una pubblicazione del tempo, Peter Stubbe divenne un licantropo in seguito alla stipula di un patto col diavolo.
Pare che queste persone fossero semplicemente affette da una forma di epilessia. Anche le fiabe raccontano quasi sempre il lato negativo del lupo. La più conosciuta al riguardo è quella di Cappuccetto Rosso, pubblicata nel 1697.
Cappuccetto Rosso e il lupo in una illustrazione del 1883 di Gustave Doré
È stato molto difficile sfatare queste credenze.
Solamente una rinnovata coscienza ecologica ha fatte proprie le tesi del mondo scientifico: ogni essere vivente svolge un ruolo importante per l’equilibrio della natura, ed anche l’atteggiamento nei confronti del lupo è mutato.
Negli anni ’70 del Novecento si è passati così alla sua tutela e, in alcuni paesi dell’America, dove era completamente estinto, è stato reintrodotto.
Ciò non toglie che i recenti avvistamenti del lupo, soprattutto in zona pedemontana, abbiano creato una certa apprensione tra la gente in generale e non solo tra gli allevatori e i pastori. L’allarme lanciato da un veterinario chiamato a soccorrere una pecora ferita in località di Ciano del Montello e la scoperta di tre agnelli sbranati ha fatto gridare: al lupo…al lupo!
Pecore assalite dal lupo inella zona dell’Alpago (fonte Radio Più emittenteAgordina)
La zona è quella tra Montello e Piave dove si trova il capitello di S. Mama o capitello dei lupi, il più antico sacello del Comune di Crocetta del Montello, fatto erigere da un tale salvato miracolosamente dall’assalto dei lupi. Siamo nei primi anni del Trecento. Nella campagna trevigiana, vicino alle abitazioni esistevano estesi boschi e i lupi, giunti dalle vicine Prealpi, vi trovavano comodo soggiorno in ogni stagione dell’anno.
In quell’epoca, nel Trevigiano aumentavano le terre coltivate e la popolazione cresceva, favorita da una migliore alimentazione. La Podesteria di Treviso seppe trarre vantaggio da questa favorevole congiuntura. Nell’assemblea dei Trecento (il numero è puramente indicativo) vi erano i rappresentanti dei diversi quartieri, compresi anche quelli del Montello.
Nel 1319 questi erano: Giovannino e Michele da Ciano (notai), Bonifacio, figlio di Michele da Ciano, Francesco da Ciano e altri esponenti da Montebelluna e Volpago. Nel territorio della Campagna di Sopra confluivano Nervesa, Bavaria, Giavera, Castagnedo, Selva, Lavaggio, Volpago, Martignago, Venegazzù, Caonada, Sottocroda, Biadene, Bosco di Ciano, Pieve di Ciano, Canduvolo di Ciano, Rivasecca e Covolo.
La suddivisione in fuochi dei vari centri abitati tornava utile per le imposizioni fiscali. A titolo di esempio possiamo dire che un fuoco corrispondeva alla rendita data da 160 campi in affitto o 40 in proprietà. La Pieve di Ciano contava 17 fuochi. Rientrò quindi nelle disposizioni del Podestà di Treviso che nel 1284 obbligava tutti i comuni con più di 15 fuochi a dotarsi di una loviera. La loviera assomigliava alle tagliole utilizzate per catturare roditori e piccoli carnivori che infestavano le campagne. Ovviamente aveva dimensioni maggiori poiché i lupi venivano catturati per la testa, segno che alla base della loviera era posta un’esca in modo che l’animale intrufolando la testa per cibarsene, rimanesse ucciso dalla trappola dentata.
Per incentivare la cattura dei lupi il Comune aveva previsto una ricompensa a quanti avessero presentato al Podestà o agli Uffici incaricati una pelle di lupo cui venivano immediatamente recise le orecchie perché non fosse nuovamente presentata all’incasso. La ricompensa per una pelle di lupo, con la testa, era di 20 soldi piccoli, per un lupacchiotto da covo di 5 soldi. Il bosco e le terre di Ciano, erano “infestate” (sic!) da questi animali. Il libro delle spese della Pieve di Ciano riporta che il 15 maggio del 1318 un tale Pietro da Ciano, notaio, ricevette 3 lire per la cattura di 6 lupatine (lupacchiotti).
Alcune immagini del capitello prima del restauro del 2014, riprese nelle varie stagioni da fotografi locali e raccolte dall’autore.
Che cosa dire allora di questo capitel dei lovi? Dobbiamo rifarci ad un antico poemetto dal titolo “Le antiche rovine di Ciano”. L’opera attribuita al parroco di Ciano Don Girolamo Bortolato si fa risalire alla fine del ‘600. In essa viene narrata la distruzione di una parte del paese a causa di una piena del Piave di inaudite proporzioni. Non poteva mancare nell’opera un cenno ad ogni cosa di interesse. E fra queste viene citato il capitello. (riporto i versi che lo menzionano)
Antico capitello in Santa Mama Con due lupi dipinti fabbricato Da chi fu già dai lupi ivi assaltato, Perciò dei Lupi capitel si chiama.
Di questo ancora al lato manco unito Tre passi di terren Cesare tiene, Dove, per quanto raccontato viene, Sta per tre dì sicuro ogni bandito.
Di ciò per segno si conserva ancora, In questo loco in pietra figurato, Augel birostro col Leone alato, Che l’Adria questo, e quello l’Austria onora.
Fur ancor qui codeste lettre incise Hic S. P. Q. T. C., e queste poi T. R. A. V. C. G. pur da noi Son ben intese, benché mal divise.
Strettamente legata con questo piccolo edificio è la chiesa di S. Mama (antico comune della Pieve di Ciano e nome stesso della località). Non è ben chiaro a quale santo ci si possa riferire: un’ipotesi lo farebbe derivare da S. Mamerto, vescovo di Vienne (Delfinato) del V secolo, ricordato per l’istituzione delle rogazioni, processioni indette per invocare protezione dalle calamità naturali. Tra queste si annoveravano anche i lupi.
Vale la pena di ritornare alla descrizione del capitello: questo edificio si trovava lungo una delle vie principali della località. Si dice pure che l’area perimetrale fosse zona franca, all’interno della quale anche un bandito godesse di immunità; è evidente l’allusione al salvataggio dai lupi.
Quello invece che rimarrà avvolto nel mistero è il cippo (oggi scomparso ma riconducibile ad un miliario di una via di una certa importanza) con le iscrizioni riportate dalle lettere viste più sopra, che l’autore afferma di essere a noi ben intese (note). Dell’antico affresco (inizio XIV secolo) rimane ben poco: le zampe del lupo e le ipotetiche sembianze dell’uomo salvato dall’assalto dei lupi. Nell’Ottocento, quando le fiere erano scomparse a seguito di una spietata caccia, il manufatto fu ridipinto all’interno con l’evangelica figura del buon pastore, salvatore delle pecore e delle anime.
Gli affreschi che si trovano all’interno del capitello. Gli ultimi due si riferiscono alle zampe pelose del lupo, resti della primitiva decorazione.
Giovani volontari hanno provveduto alla manutenzione del manufatto negli anni ’70, per impedirne il crollo
Nel corso degli anni il capitello fu comunque soggetto ad eventi naturali e atti di vandalismo che ne hanno compromesso l’integrità. Scampato alle granate del primo conflitto mondiale, la sua manutenzione era affidata alle cure del proprietario del fondo a cui si aggiunse un gruppo di volontari che negli anni ’70 lo hanno salvato dal degrado totale con interventi murari e dotandolo di un’inferriata di chiusura.
Più recentemente (2014) l’Amministrazione comunale, grazie ai fondi di strutture superiori, ha eseguito una manutenzione straordinaria e lo ha reso accessibile al pubblico mediante una stradina in ciottolato che conduce fino all’ingresso.
Ispezione sul retro del capitello alla ricerca di tracce significative (Prof. Savino Gola); lavori di restauro e capitello restaurato (2014). ph Tiziano Biasi.
Qualche perplessità può sorgere sul lavoro di restauro ma non è stato possibile reperire alcuna antica documentazione dell’opera se non alcune foto risalenti ad una cinquantina di anni fa. Forse bisognava dare più risalto al contesto territoriale; mi riferisco alla antica via sulla quale fu costruito.
Mappa del territorio di Ciano disegnata da Severino Pagnan (fascicolo senza data). Affresco su abitazione più a Nord del Capitel dei Lovi. La pittura, opera popolare che si fa risalire al 1500, è interessante per il luogo in cui si trova: lungo un percorso che costeggia il Piave, probabilmente frequentato da viandanti e pellegrini.
Si tratterebbe infatti di una possibile diramazione della celebre Claudia Augusta Altinate che all’altezza di Nervesa avrebbe proseguito sulla riva destra del Piave (alcune tracce sono state evidenziate da recenti studi), interessando la località Zoppalon di Crocetta per immettersi sull’attuale Statale Feltrina e proseguire per la destinazione di Augusta (Ausburg).
Suggestive visioni aeree del Capitel dei Lovi dopo il restauro. (Archivio Comitato per la tutela delle Grave di Ciano – ph Matteo Moretto)
A conclusione di queste divagazioni sul lupo e il suo capitello ci troviamo ai margini delle Grave di Ciano e vediamo come la storia sia un intricato intreccio di fatti, di luoghi, di uomini, di animali. Un patrimonio di conoscenza per noi, e se lo vorremo, anche per chi verrà dopo di noi.
A cura di Tiziano Biasi
Bibliografia: Vivere il Montello – Edizioni della Galleria – Treviso 1984 Sac. Giovanni Zanatta – Ciano del Montello e la sua Pieve – 1958/2003 Oreste Battistella – Delle Antiche Rovine di Ciano – Stab. G. Carestiato 1923 Immagine di copertina: un’idea dell’autore
Un esempio di come l’opinione pubblica può modificare le scelte politiche.
Il Tagliamentonasce a Lorenzago di Cadore (BL – Veneto) a 1195 metri di quota, per entrare poco dopo nella regione Friuli V. G. costituendone il fiume principale. Si riaccosta al Veneto solo a fine corsa, ne segna il confine e sfocia dopo 178 Km in Adriatico tra il litorale di Bibione e quello di Lignano. Definito a carattere torrentizio per la variabilità stagionale delle sue portate, manifesta la sua notevole dinamicità soprattutto nelle zone pedemontane e sul fondo di ampie pianure alluvionali con un corso a canali intrecciati perennemente mobili che creano numerosi tipi di microhabitat con conseguente ricchezza di biodiversità.
Tutte queste sono caratteristiche che condivide con il Piave e non sono le uniche. I due fiumi nascono a poca distanza, vivono l’irruenta fase giovanile nelle Alpi, alla base delle quali si acquietano in enormi pianori ghiaiosi, le Grave appunto, per poi raccogliersi nella parte più bassa del corso in un ristretto letto meandriforme, che nel caso del Piave è stato canalizzato ormai da molto tempo.
Il fiume Piave visto dalle Grave di Ciano – Foto dall’archivio del Comitato
Nati fratelli, ma divisi dalla storia…L’impatto umano è stato assai pesante per il Piave, molto più lieve sul Tagliamento, rimasto quasi miracolosamente indenne, soprattutto nella parte mediana, fino alla soglia del terzo millennio.
Il Tagliamento fa “scuola”, è un laboratorio a cielo aperto per le ricerche di ecologia fluviale di studiosi provenienti da tutto il mondo, un modello da studiare per imparare a salvare i fiumi che abbiamo sistematicamente artificializzato e che ora, con il senno di poi, tentiamo di recuperare. Per queste sue caratteristiche è considerato il ”re dei fiumi alpini”.
Non pensiamo però che sia un idillio: studi effettuati tra il 1500 e l’inizio del 1900 testimoniano che le alluvioni sono il terzo flagello del Friuli dopo carestie ed epidemie e il Tagliamento ha fatto la sua parte. Tra il 1965 e il 1966 si susseguono a distanza di un anno due alluvioni distruttive, che interessano sia l’alto bacino che la bassa pianura. Latisana è particolarmente colpita.
Gli enti preposti alla difesa idraulica si mettono in moto e già nel 1970 uno studio milanese consegna alla Regione friulana un progetto di massima per una diga posta a livello della strettoia di Pinzano, considerata opera cardine tra gli altri interventi migliorativi della regimentazione del fiume.
Le comunità del basso corso sospirano di sollievo alla proposta della grande opera a monte, ma il comune di Pinzano non ci sta e chiede ripetutamente alla Regione un confronto che non sarà mai accolto. Nel 1978 si dimettono per esasperazione il Sindaco e 7 Consiglieri.
Del 1979 è la presentazione del progetto definitivo: uno sbarramento di laminazione in cemento armato alto 20 metri sulle grave, lungo 166 metri alla base e 226 metri alla sommità.
Comincia ad animarsi una complessa partita tra comunità del basso e del medio corso, tra Comuni e Regione. Uno scontro che si protrae per anni.
Alla sordità della Regione fa eco la risposta sempre più determinata dei Comuni che si coagulano attorno al primo, e delle popolazioni che si organizzano in numerosi Comitati, che vogliono sapere, approfondire, soprattutto condividere le scelte che riguardano il proprio luogo di vita.
Fiume Tagliamento a Pieve di Rosa. Ph Frto. (da wikimedia commons, condiviso con licenza creative commons Attribution 3.0 unported)
Il fiume Piave da S. Mama. Ph Rita Bellomo
Alcuni punti della vicenda:
A fronte della forte opposizione dei Comuni interessati, si fa strada a livello istituzionale una proposta per un’opera ritenuta “alternativa” alla diga: il Piano Stralcio adottato dall’Autorità di Bacino nel 1998 e approvato nel 2000, ipotizzando un’onda di piena centenaria di 4600 mc/s di cui solo 4000 mc/s contenibili all’altezza di Latisana, ferma a monte i restanti 600 mc/s entro 3 casse di espansione di capacità 30 milioni di metri cubi complessivi, da realizzare nel tratto di fiume che va dal ponte di Pinzano a quello di Dignano. La motivazione addotta a giustificazione della scelta recita: “… per tale opera esiste il consenso sociale…”
Ma non è vero.
Le comunità del medio corso reagiscono con tutti gli strumenti democratici disponibili.
Fin dal 1999 sorgono Associazioni e Comitati popolari; si inviano petizioni contro la realizzazione delle casse alla Regione e alla Comunità Europea; nel 2001 viene fondata l’Associazione ACQUA (Associazione Controllo Qualità Urbanistico Ambientale) che, presieduta da Renzo Bortolussi, non abbandonerà mai la scena fino al suo epilogo:
“…l’opera è inutile, rischiosa e rappresenta uno scempio ambientale. Ci siamo riuniti in gruppo per opporci al nefasto progetto delle casse di espansione sul fiume Tagliamento. I “bacini” prospettati in tale progetto, infatti, sono stati ritenuti, oltre che inutili, anche ad alto rischio per le popolazioni a valle, nonché uno scempio ambientale, un’alterazione del microclima e uno sciupio scriteriato di centinaia di milioni di euro”.
Progetto delle casse di espansione sul Tagliamento
Capace di costituire un riferimento per molti cittadini, ACQUA risponderà colpo su colpo alle iniziative della Regione giudicate irricevibili, invierà appelli a tutte le autorità preposte, presenterà progetti alternativi senza esitare a ricorrere alle vie legali. Alla fine raccoglierà i frutti del suo tenace impegno.
Nel 2002 oltre 700 scienziati, ricercatori, studiosi, con circa 8.000 cittadini europei e decine di Organizzazioni Non Governative e Centri Studi di tutta Europa sottoscrivono una petizione internazionale WWF per la salvaguardia del fiume Tagliamento; nel 2005 vengono raccolte 19.000 firme da inviare alla Regione, al Ministero dell’Ambiente e alla Comunità Europea e sedici Comuni si associano per chiedere alla Regione una vera soluzione alternativa.
Nel contempo cinque Comuni, i più coinvolti dalla devastazione annunciata, commissionano ad una ditta olandese di fama internazionale uno studio scientifico per valutare se le casse progettate siano effettivamente necessarie e se siano l’unica soluzione possibile per prevenire le esondazioni a Latisana. Lo studio evidenzia che, senza gli interventi da effettuarsi nella bassa friulana, già peraltro proposti nel Piano Stralcio, le sole casse non sono sufficienti, e, per contro, se venissero effettuati tali interventi, le casse di espansione non servirebbero.
L’iter regionale avanza però implacabile e nel 2007 viene approvato il progetto preliminare delle casse di espansione:
…prevede 3 casse di espansione in serie poste in destra idrografica, immediatamente a valle della stretta di Pinzano, per una superficie di 850 ettari in area SIC. La struttura di contenimento delle acque di piena è costituita da un sistema di rilevati arginali che, in ragione della pendenza dell’alveo, raggiungerebbero altezze dagli 8 ai 10 metri in corrispondenza del lato di valle di ognuna delle casse…
A questo punto l’opposizione si irrigidisce. A nessun costo è disposta a pagare la devastazione irreversibile di un territorio di grandissimo pregio ambientale: il tratto di fiume Pinzano – Dignano è stato riconosciuto come Sito di Importanza Comunitaria “Greto del Tagliamento” (tutelato ai sensi della Direttiva Habitat 92/43 CEE) ed è considerato il più prezioso segmento naturalistico dell’intero fiume dai ricercatori stranieri che lo studiano assiduamente per imparare a rigenerare i corsi d’acqua antropizzati.
Va maturando una consapevolezza sempre più profonda: voler entrare nel merito della questione, ovvero pretendere la partecipazione attiva nella gestione del territorio in cui si vive, non è velleità ma un “diritto” riconosciuto dalle Leggi, principalmente la Convenzione di Århus, Danimarca 1998 – Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico ai processi decisionali e l’accesso alla giustizia in materia ambientale. Viene ratificata dall’Italia con legge n. 108 del 2001 e successivamente integrata dalla DIR 2000/60/CE, recepita con decreto legislativo n.152 del 2006. Denominata “Direttiva Quadro Acque”, quest’ultima affronta il tema dell’acqua con un’ottica globale e molto avanzata rispetto alla normativa precedente, valorizzando le molteplici funzioni del bene acqua e riconoscendo la coesistenza di esigenze diverse:
sociale: la protezione delle persone dai rischi per la salute e la sicurezza;
economica: la possibilità di accesso da parte della popolazione e delle imprese;
ambientale: la conservazione della risorsa e dei servizi ecosistemici anche per le generazioni future.
Ha inizio la battaglia legale. I cinque Comuni più interessati, S. Daniele, Ragogna, Pinzano, Dignano e Spilimbergo, con il WWF e l’Associazione ambientalista ACQUA ricorrono al Tribunale Superiore delle Acque di Roma per impugnare la Delibera Regionale di approvazione del progetto preliminare ed è già pronto anche il ricorso al Parlamento Europeo e alla Commissione Europea nel caso la Regione persista sulla volontà di realizzare il progetto nel SIC.
Vinceranno nel 2012. Vinceranno anche nel 2013 in Corte di Cassazione, che respinge per vizio di forma il ricorso avverso alla sentenza del Tribunale delle Acque presentato dall’Autorità di Bacino.
Nel 2008 irrompe un clamoroso colpo di scena: viene dissepolto dall’oblio uno studio, commissionato nel 1983 dalla Regione Friuli all’Università di Udine e alla ditta SERTECO, per la modellizzazione di un tratto di fiume a monte e a valle di Latisana. Lo studio, costato 5 miliardi di lire, riteneva che una serie di interventi sul basso corso potesse garantire la città dal rischio di allagamento. È una tesi che ricalca gli esiti di più recenti perizie tecniche indipendenti, pagata profumatamente e inspiegabilmente mai palesata, un’ulteriore autorevole proposta alternativa alle casse di espansione. ACQUA allega lo studio ai documenti del ricorso e denuncia, in un’audizione richiesta alla Commissione Parlamentare Antimafia, l’esistenza di interessi economici alla base del pervicace sostegno alle casse da parte delle istituzioni.
Il 2009 è l’anno della svolta: il nuovo Assessore regionale è contrario alla soluzione casse. Ormai il loro destino è segnato, i tempi sono finalmente maturi per una composizione equilibrata e condivisa della complessa questione.
Nel 2010 la Regione FVG costituisce la Commissione denominata “Laboratorio Tagliamento”, un tavolo tecnico dove siedono rappresentanti della Regione, dell’Autorità di bacino, delle Università di Trieste e Udine, dei Comuni del medio e basso corso del fiume, delle Associazioni ambientaliste WWF e ACQUA. Dopo decenni di civili ma strenui combattimenti e alluvioni di carte, gli scopi dichiarati dell’iniziativa sono confortanti; vengono considerate:
Le problematiche emerse nel corso dell’iter pregresso;
le soluzioni tecniche più condivise per la messa in sicurezza del medio e basso corso del fiume;
le esigenze dei vari portatori di interesse, istituzionali e non;
le delicate tematiche ambientali;
le implicazioni inerenti gli impegnativi aspetti finanziari.
Dopo aver esaminato 13 progetti (ma NON lo studio sopra citato Università di Udine – SERTECO, dettaglio che scatenerà un’ulteriore denuncia da parte di ACQUA), la Commissione “Laboratorio Tagliamento” presenta le sue conclusioni: per mettere in sicurezza la parte finale del fiume, in grado di supportare una portata di soli 1400-1500 mc/s, i restanti 2500 metri cubi dell’ipotizzata onda di piena centenaria andranno convogliati nel canale scolmatore Cavrato, che si diparte dal fiume 8 km a valle di Latisana e sfocia dopo 18 Km nel porto di Baseleghe, nella laguna di Bibione:
“… la Commissione ha ritenuto prioritari e inderogabili i seguenti interventi:
adeguamento e rinforzo degli argini da Latisana fino al canale Cavrato;
sistemazione dell’opera di presa del canale scolmatore Cavrato e del canale stesso (interventi quest’ultimi di competenza della Regione Veneto);
adeguamento e rinforzo dell’ultimo tratto del Tagliamento per renderlo idoneo al transito delle portate residue, in condizioni di sicurezza…
”Le soluzioni proposte per la laminazione dell’onda di piena all’altezza della stretta naturale di Pinzano sono state molteplici, ma una è stata ritenuta risolutiva: la realizzazione di una traversa di moderna concezione che riesca a limitare la portata in transito a 4000 mc/s contenendo il volume di invaso a 18.000.000 di mc con una quota di massimo livello raggiungibile inferiore a 145,00 m. s.l.m.m.. Il volume di invaso e il costo dell’opera (stimato in 30 milioni di euro) sono notevolmente inferiori ai corrispondenti valori del progetto originario delle casse di espansione. Ancora una volta questo progetto è contestato da ACQUA, per 3 motivi: la difficoltà di realizzazione (già considerata dalla Commissione De Marchi del 1970), la non consonanza alle Direttive europee delle costruzioni sui fiumi, l’inutilità di una traversa lontana dal temuto pericolo, come già aveva evidenziato la ditta olandese citata sopra.
Nel gennaio 2020 Telefriuli intervista Renzo Bortolussi. Titolo del video: Casse di espansione sul Tagliamento, opere solo a valle: “Evitato il Mose friulano”… soddisfazione dell’Associazione ACQUA.
Tavola estratto dallo studio di fattibilità delle casse di espansione sulle Grave di Ciano.
A cura di Alessandra Tura e Lucia Poloniato .
In copertina: il fiume Tagliamento visto dal colle Pion.
Foto di Diego Crociato, tratta da Wikimedia concessa in licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International.
Tesi di laurea dott.ssa Martina Del Toso “Multi-level Governance e tutela dei beni comuni. Il caso delle casse di espansione sul fiume Tagliamento”. Università di Padova – Corso di laurea Triennale in Scienze politiche, studi internazionali, governo delle amministrazioni – Relatore: Prof. MARIA STELLA RIGHETTINI
Il mese di maggio è forse il più interessante dell’anno, con riferimento alla possibilità di osservare ricche fioriture di piante spontanee in ambiente. Possibilità che diviene interessantissima opportunità nei biotopi in cui si conserva un elevato livello di fitodiversità.
La passeggiata botanica compiuta con l’Associazione “Salviamo il Paesaggio”, sezione di Mogliano Veneto, in compagnia della botanica Katia Zanatta della Società Botanica Italiana, sezione Veneto, il 29 maggio, ha confermato tutto questo. Essa ha inoltre evidenziato come il giacimento di biodiversità dell’area, fortemente minacciato dai progetti di cassa di espansione per le piene del fiume Piave, costituisca un patrimonio di elevatissimo valore; come del resto confermano i vincoli di livello regionale ed europeo, da cui il predetto progetto vorrebbe prescindere.
Nonostante la primavera siccitosa e ormai avanzata, nel percorso che ha consentito di attraversare longitudinalmente l’area, la cui superficie assomma a circa 900 ha, sono infatti stati osservate numerose associazioni floristiche e numerose specie.
Tra le associazioni di margine, costituite dal Bosco meso-igrofilo a Pioppo nero (Populus nigra), Olmo campestre (Ulmus minor), Frassino meridionale (Fraxinus oxycarpa) ed Edera (Hedera helix), dalla boscaglia pioniera ad Orniello (Fraxinus ornus), Carpino nero (Ostrya carpinifolia) e Salice ripaiolo (Salix eleagnos), dai prati falciabili e dagli arbusteti di Falso indaco (Amorpha fruticosa), si insinuano biotopi di prateria arida di tipo steppico a Lino delle fate veneto (Stipa eriocaulis) e arbusteti radi ad Olivello spinoso (Hippophae rhamnoides) e Ligustrello (Ligustrum vulgare).
In questi stessi biotopi si concentra dunque la composita fitodiversità delle Grave di Ciano. E se nei primi si osservano specie alloctone frequenti come il Caprifoglio del Giappone (Lonicera japonica), la Rosa multiflora (Rosa multiflora), lo stesso Falso indaco e il Noce (Juglans regia), nei biotopi aridi le presenze floristiche esprimono invece una complessità corologica notevolissima.
Accanto a specie dealpinizzate, come le Vedovelle dei prati (Globularia punctata; 0-1500 m slm; S-Europ.-Sudsiber.), le Vedovelle a foglie cordate (Globularia cordifolia; 100-2600 m slm; Endem. Alp.), il Trifoglio montano (Trifolium montanum; 0-1600 m slm; S.Europ.-Sudsiber.), il Buftalmo salicino-flessuoso (Buphthalmum salicifolium; 200-1800 m slm; Orof.-SE Europ.), l’Eliantemo maggiore (Helianthemum nummularium; 0-2500 m slm; Europ.-Cauc.) e l’Astragalo falsa-lupinella (Astragalus onobrychis; 500-1800 m slm; S-Europ.-Sudsiber.),
si osservano così specie di prateria arida, come l’endemico Lino delle fate veneto (Stipa eriocaulis; 0-30 m slm; Endem.), come la Lupinella comune (Onobrychis viciifolia; 0-2200 m slm; Medit.-Mont.), alternate a specie colonizzatrici come la Fumana prostrata (Fumana procumbens; 0-800 m slm; Euri.-Medit.-Pontica)
Non mancano le orchidacee, con una decina di specie, tra cui l’Orchide cimicina (Anacamptis coryophora; 0-1000 m slm; Euri-Medit.), l’Orchide militare (Orchis militaris; 0-1800 m slm; Euro-asiat.) e l’Orchidea screziata (Orchis tridentata; 0-1400 m slm; Euri-Medit.).
Tutto questo evidenzia come l’area delle Grave si collochi al confine tra le grandi aree biogeografiche alpina, centro-europea, steppico-balcanica e mediterranea. Come tale essa costituisce un vasto biotopo vegetazionale in cui gli elementi floristici provenienti da tali aree, si incontrano e coesistono.
Ragione quest’ultima che ci impone, ancora una volta di riflettere se veramente, per conseguire la sicurezza idraulica dei territori del basso Piave, non esistano altre soluzioni se non la quasi totale distruzione delle Grave di Ciano.
Si ricorda che la cassa di espansione, con una escavazione totale e abbassamento del piano di campagna su ben 500 ha dei complessivi 900, verrebbe contenuta da un’arginatura alta 8 metri e con base pari ad almeno 30 metri. Come a dire uno scempio bio-ecologico, idrogeologico e paesaggistico totale e irreversibile.
Michele Zanetti
In copertina: Astragalo falsa-lupinella foto di Michele Zanetti
Il 6 giugno ricorre l’anniversario della nascita di Gino Rossi (Venezia 1884). Alcuni anni or sono è stato pubblicato un saggio sull’artista a cura di Luigi Urettini dal titolo “L’ultima battaglia di Gino Rossi”.
Gino Rossi in una foto del 1910 ca e in una degli anni ’30 presso il manicomio di Treviso.
Mi sono chiesto quale possa essere stata l’ultima battaglia dell’artista ben sapendo che la sua vita di 63 anni gli è stata sottratta per un terzo: gli ultimi ventuno anni li ha trascorsi in manicomio.
Nel 1921 Antonio Gramsci nel quotidiano Ordine Nuovo, accomuna il nome di Gino Rossi a quello di Felice Casorati, segnalandoli fra i pochi pittori italiani realmente originali. I due pittori si erano conosciuti a Venezia all’esposizione giovanile d’arte di Ca’ Pesaro in tempi migliori e tra loro era nata una solida amicizia derivante dalla reciproca stima e Casorati aveva comperato un’opera dell’amico “Il Bevitore”. L’unica opera venduta da Rossi se escludiamo quelle commercializzate da Barbantini, critico d’arte e organizzatore dal 1908 delle mostre di Ca’ Pesaro.
Gino Rossi – Il bevitore (olio su cartone trasportato su tela 72 x 60 cm, 1913)
Dico anni migliori poiché Rossi nel 1921 aveva combattuto e perso ogni sua battaglia.
Gino Rossi – Case in collina (Montello?) olio su cartone 38 x 55 cm, Chiesa sul Montello olio su cartone 58 x 86 cm e Alberi sul Montello olio su cartone 55 x 38 cm
Si trovava a Ciano, sul Montello, dove era giunto nel 1914 dopo anni convulsi tra partecipazione a mostre e tante idee innovative con gli amici di Ca’ Pesaro, tra i quali Arturo Martini, ma in profonde ristrettezze economiche. Lo consolava la sua nuova compagna Giovanna Bieletto. La moglie Bice Levi Minzi lo aveva abbandonato alla fine del 1912 quando era ritornato dall’esposizione parigina del Salon D’Automne.
Gino Rossi – ritratto della moglie Bice Levi Minzi (olio su tela 35,5 x 25,5, 1907) – Tre donne danzanti (acquerello su carta 21,7 x 36,5, 1910 ca). Le opere risentono dell’infuenza di Gauguin e di Matisse.
Nel 1915 scriveva all’amico Nino Barbantini:
“…Non ti ho scritto di venire qui perché per quanto cara mi sia la tua presenza e di sprone e di conforto in questi momenti, non voglio darti lo spettacolo della mia miseria. Ti parlo sinceramente e senza fronzoli: qui non ho una stufa per scaldarmi, non ho vestiti, non ho denaro per comprarmi qualche bel libro del quale sento tante volte il bisogno; ho la soddisfazione di vivere in un paese magnifico, ma questa soddisfazione la pago caramente…”
Poi arriva la Grande Guerra e Rossi viene spedito sul Carso. Dopo la rotta di Caporetto viene fatto prigioniero e trasferito in Germania a Restatt. Anche questi sono tempi di fame con la F maiuscola.
Quando viene congedato raggiunge la madre e Giovanna a L’Aquila dove erano giunte profughe ma la casa di Ciano è completamente distrutta. Da Noventa Padovana dove i tre avevano trovato alloggio si reca per l’ultima volta a Parigi dove approfondisce la lezione di Cezanne e il cubismo di Picasso e Braque. La sua mente corre e lui rincorre quel successo che non arriva nonostante la sua frenetica attività e le sue partecipazioni a numerose rassegne di artisti. Alla grandiosa Mostra di Ca’ Pesaro del 1919, la prima dopo la guerra, si ritrova con vecchie conoscenze come Teodoro Wolf Ferrari. Sarà presente anche all’esposizione nazionale di belle arti a Torino, su invito dell’amico Casorati.
Teodoro Wolf Ferrari – Le Grave di Ciano e foto delle Grave dalle pendici del Montello (gentile concessione di Marina Sernaglia)
L’anno dopo chiede di essere ammesso alla Biennale di Venezia ma viene ignorato. Si trova sempre a Noventa. Da qui è facile raggiungere Padova e frequentare Dario De Tuoni, un giovane brillante scrittore triestino conoscitore dell’espressionismo e del movimento Dada. Grazie a De Tuoni scopre la rivista fondata da Le Corbusier “Esprit Nouveau” di cui farà proprie le idee innovative. Il suo spirito indomito lo porta ad esporre a Padova, a Treviso e a Milano, dove la critica si rivela a lui ostile. Amareggiato e squattrinato trova nuovamente alloggio a Ciano in casa Buogo dapprima e poi sul Montello in casa Marsura.
La casa di Gino Rossi sul Montello e uno schizzo di Ciro Cristofoletti che indica il percorso per raggiungere la casa del pittore
Scrive ancora a Barbantini che, di tanto in tanto, gli invia del denaro: “Si direbbe che ognuno goda a sapermi in queste angustie – pare che io debba scontare come colpa imperdonabile vent’anni di lavoro e di studio…Sono stato inutile a me stesso, è vero, ma non agli altri”.
Nonostante queste traversie a luglio del 1922 sente di poter scrivere all’amico De Tuoni una lettera dalla quale si percepisce come il paesaggio, il territorio che si presenta ai suoi occhi sia l’espressione di pace e libertà:
“ Caro De Tuoni, non hai mai sentito nominare Ciano? Possibile che un Professore arrivi ad ignorare uno dei paesi più belli del mondo? Guarda un po’! Eppure è proprio così. Ciano, caro Dario, è sulle rive del Piave – ma io, invece, sto su, ben in alto, in cima al Montello – e qui la sera e la mattina mi godo il panorama della Libertà sconfinata. Pensa: sconfinata!… (La grande ansa che il Piave forma all’altezza di Ciano, le Grave. Lo stesso panorama si offre ancor oggi ai nostri occhi…). Potrei qui fare pittura in camicia e anche …senza. Non ci sono villeggianti – non ci sono che i miei due cani; qualche contadino che passa ma raramente…Sono diventato l’uomo della natura, l’uomo del bosco, un quasi vegetariano, non conosco più vino né liquori e sono sulla strada di rinunciare alla fedele…Macedonia! (sigaretta) Non vedo giornali. Non so più di lotte tra fascisti e comunisti, non leggo più le critiche di Ojetti e Damerini. Si acquista salute e intelligenza…”
Gino Rossi – Donna che danza (olio su cartone riportato su tela 99 x 33.5 cm) e Paese sul Montello (Ciano?) (olio su cartone 46,5 x 55 cm) – Foto di uno escavatore sul Piave (gentile concessione di Marina Sernaglia)
Le vicende poi precipitarono e sono ben note. Gino Rossi soccombe ad un destino amaro e cede a chi lo vuole escludere dalla società ma oggi siamo consapevoli del suo valore artistico e dell’amore per un luogo “Le Grave di Ciano” che hanno significato per lui la rappresentazione della libertà dagli affanni, dalla povertà, dall’abbandono degli amici, ma non dall’arte che ha cercato di interpretare e di anticipare rispetto ai suoi contemporanei.
Gino Rossi – Case in collina (olio su cartone 40 x 37 cm, 1923), Composizione con figure e girasoli (pastello su carta 23,5 x 30,5, 1923) e natura morta con pipa (olio su cartone 56 x 74 cm, 1922). Si noti il beffardo “Sei Rossi”, ingenua firma dell’artista.
Torniamo alle Grave di Ciano. La paventata costruzione delle casse di espansione avrebbe come effetto la distruzione di questo luogo che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi tempi. Ci porterebbe all’amara considerazione del dopo: “si conosce il bene quando si è perduto”. Non è così, noi lo conosciamo ora; le Grave ci parlano nei silenzi invernali, ci sorridono nelle primavere ricche di flora, ci supplicano talvolta nei flussi dei canali intrecciati.
Non permettiamo che tanta bellezza scompaia, combattiamo l’ultima battaglia. Perdere ora sarebbe come essere in parte privati della nostra libertà.
La bellezza delle Grave di Ciano negli scatti dei fotografi Giancarlo Silveri e Guido Andolfato
a cura di Tiziano Biasi
In copertina: Gino Rossi, Paese sul Montello (Ciano) l’incompiutezza dello sfondo evoca il fascino dell’infinito
Bibliografia: Luigi Urettini L’ultima battaglia di Gino Rossi Terre d’Este, rivista di storia e cultura – anno XX n. 39 gennaio-giugno 2010 Flavia Scotton e Nico Stringa (a cura di) – Gino Rossi Lettere e scritti dispersi Canova Edizioni – 2020 Giuseppe Mazzotti Colloqui con Gino Rossi Edizioni Canova Treviso – 1974 Opere Gino Rossi tratte dai cataloghi delle varie esposizioni (non sempre sono databili, mancando di indicazioni da parte dell’artista)
Le giornate mondiali dedicate alle api, alla biodiversità, alle lucciole… si susseguono a ritmo sostenuto. Sono campanelli di allarme per chi non vuol sentire?
Pensare alle api significa evocare un alveare, una struttura mirabile fatta di migliaia e migliaia di individui, che comunicano tra loro con un linguaggio stupefacente al fine di coordinarsi in una gamma di funzioni, differenziate per ogni stadio della loro pur breve vita. Sono piccoli e infaticabili animali che procurano prodotti da sempre utilizzati ed apprezzati dall’uomo: miele, polline, pappa reale, cera, propoli e veleno. Ci dimentichiamo che per nutrire se stesse e i loro piccoli le api hanno sviluppato un reciproco e fruttuoso scambio con le piante: da queste prendono nettare e polline e restituiscono loro un servizio, il trasferimento del polline di fiore in fiore. Si realizza così la fecondazione incrociata, ovvero quello scambio genetico che è alla base della biodiversità vegetale e grazie alla quale le piante maturano frutti e semi.
Non tutti sanno che in questo immane lavoro, accanto alle api domestiche sono coinvolti miriadi di api selvatiche dai nomi misconosciuti, come andrene, silocope, megachili, presenti in Europa con centinaia di specie e i più noti bombi, presenti con decine di specie.
Quando parliamo di api, comprendiamo dunque anche questi insetti impollinatori che, a differenza delle api domestiche, vivono in piccole colonie come i bombi o singolarmente come appunto le api “solitarie”. A tutti loro spetta l’impollinazione dei tre quarti delle specie orticole che portiamo in tavola e di altrettante specie di piante selvatiche, scelte in base alla corrispondenza tra la conformazione del fiore e l’apparato boccale dell’insetto. Un reciproco adattamento maturato in decine di milioni di anni di coevoluzione.
Le api sono responsabili di circa il 70% dell’impollinazione di tutte le specie vegetali viventi sul pianeta e garantiscono circa il 35% della produzione globale di cibo. (dati ISPRA)-
Questo complesso e affascinante mondo, di importanza vitale per la sopravvivenza dell’intero pianeta, si trova attualmente in grande sofferenza. Gli apicoltori, grazie alla consueta vicinanza con i loro piccoli animali, ne sentono il polso e non possono che lanciare allarmi: attacchi da parte di parassiti, di predatori, ma soprattutto morie improvvise di individui e annientamento di interi alveari. Si può supporre per analogia che in simile stato di sofferenza siano gli impollinatori selvatici.
In effetti, i numeri relativi alle popolazioni di insetti impollinatori minacciate e a rischio di estinzione non sono disponibili, ma le valutazioni a livello regionale e nazionale indicano alti livelli di minaccia per api e farfalle.
In Europa quasi la metà delle specie di insetti è in grave declino e un terzo è in pericolo di estinzione. Inoltre, il 9% delle specie di api e farfalle è minacciato di estinzione (dati ISPRA).
A livello globale, la sparizione di habitat e l’inquinamento ambientale sono tra le principali cause di questo declino.
La situazione locale rispecchia tali dati. Anzi, la nostra regione ha particolari responsabilità, dati suoi record negativi: da svariati anni occupa i primi posti in Italia sia per consumo assoluto di suolo, ovvero per cementificazione di suolo agricolo, sia per utilizzo di pesticidi/ettaro.
Ulteriori concause derivano dalle moderne scelte agricole che vediamo concretizzate attorno a noi: l’eliminazione delle siepi, l’eliminazione dei grandi alberi con cavità, dove gli impollinatori selvatici possono nidificare, l’uso indiscriminato del diserbo con sterminio di ciò che non è immediatamente e tangibilmente produttivo. Cosa resta? Restano le estensioni a monocoltura con le loro fioriture abbondanti ma effimere,dopo le quali… il nulla. Oggi gli insetti muoiono di fame oltre che di veleno, e quelli che sopravvivono sono deboli, facilmente preda di parassiti e malattie.
Se si considera poi l’incognita dei cambiamenti climatici, si comprende che l’ambiente è divenuto inospitale per la maggior parte degli insetti impollinatori.
In questa drammatica situazione appare inestimabile il valore di un territorio a noi vicino come le Grave di Ciano, estese per centinaia di ettari nella golena del Piave e prevalentemente costituite da praterie spontanee ad alta biodiversità.
Definite area “wilderness”, le Grave sono un rifugio per specie che non trovano ormai casa in nessun’altra parte della pianura, una vera e propria riserva biogenetica da difendere con i denti.
Anche con il comportamento giornaliero possiamo fare la nostra parte come alleati di questi piccoli esseri di importanza vitale: favoriamo l’agricoltura biologica, acquistiamo prodotti non trattati e, se abbiano la fortuna di poter gestire un orto o un giardino, mettiamo in atto le pratiche a volte veramente semplici, che li rendono ospitali agli insetti.
Ecco un esempio tratto dalla Charta dei giardini, encomiabile iniziativa svizzera da qualche tempo adottabile anche in Italia.
Possiamo avere un prato accogliente
Per scaricare la versione italiana della Charta dei giardini clicca qui.
La Smara è un personaggio femminile dell’agordino, che si pone tra mitologia e credenza popolare, storia che tuttora persiste in certe vallate del bellunese e nel trevigiano.
Della Smara si narra che fosse una donna non tanto bella, mal battezzata ed allevata peggio: di notte si trasformava in strega malefica e faceva venire gli incubi durante il sonno alle mogli degli zattieri del Piave, mettendosi a sedere sopra i loro petti e facendo fare a loro sogni funesti per la sorte dei loro uomini che con le loro zattere scendevano le tortuose acque del Piave, dove gli incidenti di navigazione erano frequenti.
La motivazione principale del suo comportamento dispettoso era una sfrenata gelosia, perché nessuno l’aveva chiesta in sposa per i suoi strani e sospetti comportamenti.
Le donne agordine convinsero i loro uomini di portarla fuori provincia con la loro zattera, con la lusinga che sul tratto delle Grave di Ciano in terra Trevigiana, avrebbe incontrato dei bei giovani pretendenti, intenti a pescare o a raccogliere i salici spontanei per fare i cesti, e potersi così accasare in quei luoghi ameni.
Gli zattieri la fecero salire mal volentieri perché era pericoloso portare a bordo una donna siffatta: giunti all’antico Passo Barche di Vidor e sapendo che più avanti la corrente del Piave si addolciva, pensarono di sbarazzarsi una volta per sempre della strega spingendola a tradimento in acqua perché affogasse non potendo più così far danni. Ma non fu così:
dove lei affogò si formò un vortice fatale per gli ignari bagnanti dato che molti giovani, ingannati dall’apparente calma del tratto, facevano e fanno ancor oggi il bagno venendo presi per i piedi e trascinati nel fondo dalla Smara che li vuole abbracciare e averli tutti per sé facendoli così annegare senza scampo.
Alle leggende non si sa mai se credere oppure no, ma se si fosse dato retta a questa, molti inconsapevoli giovani si sarebbero salvati: a maggior ragione, sul luogo di tanti annegamenti c’è un cartello di divieto di balneazione senza che ne sia specificato il vero motivo.
Presenze apparentemente effimere, brillanti colori sguizzanti nell’aria… le farfalle associate alla bellezza, alla gioia di vivere e alla spensieratezza poche volte ci fanno riflettere alla complessità che nascondono, cominciando ad esempio dalle 170.000 specie descritte finora delle quali conosciamo soltanto una minima parte. “Farfalle” e “falene” rappresentano un sesto di tutti gli insetti sottoposti a classificazione. È possibile trovarle in ogni regione del globo e in habitat diversissimi: dalle foreste tropicali, alla tundra dell’Artico, nonché tra le bellezze delle grave di Ciano.
Considerate nell’immaginario collettivo animali belli, spesso reputati simboli di pace, bellezza e libertà, sono considerate specie bandiera cioè specie scelte per la loro vulnerabilità, attrazione, aspetto, allo scopo di suscitare il sostegno ed il riconoscimento del grande pubblico per tutelare e proteggere fragili ecosistemi come ad esempio quello delle Grave.
Ben 63 specie di farfalle diurne utilizzano le Grave per le loro esigenze trofiche, per la loro riproduzione, come “casa”, adattandosi ognuna alla vita più o meno complessa che questi ambienti richiedono.
L’importanza ecosistemica che ogni specie riveste è fondamentale. Anche le farfalle pur apparentemente piccole ed insignificanti, sono esseri viventi che ricoprono un anello rilevante nella catena trofica permettendo l’insieme dei rapporti tra gli organismi di un ecosistema.
L’etimologia dell’italiano “farfalla” è ancora di origine incerta, “butterfly” corrisponde invece al tedesco “schmetterling” che deriva dal termine usato anticamente per indicare la panna da cui si ricavava il burro negli alpeggi (schmetten o schmette). Le zangole colme di panna che venivano lasciate sui prati attiravano le farfalle e da qui il nome “mosca di burro”, “butterfly”.
In greco antico per indicare le farfalle si usava la parola ψυχή o psyche che significava anche anima, respiro, fiato. Un tempo alcune culture pensavano che fossero le anime dei morti. Al tempo in pochi erano al corrente che i “fiori alati”, questo il significato della parola farfalla in greco moderno, ed i bruchi verdi che si trovavano in terra o sulle foglie intenti ad alimentarsi fossero la stessa creatura. Anche fin dopo la fine del XVII secolo solo i cultori della materia sapevano riconoscere gli stadi della metamorfosi di una farfalla. I ricercatori che collezionavano ed allevavano farfalle venivano considerati dei pazzi o degli stregoni.
Uova di varie specie di lepidotteri diurni
La vita di una farfalla quindi non si ferma solo alla fase di “immagine”, l’adulto volatore, ma è un fantastico evolversi di cambiamenti: dall’uovo, con una gran variabilità di forme e sculture, alla larva o bruco, fase deputata alla nutrizione e all’accrescimento, alla pupa o crisalide caratterizzata dalla immobilità esteriore e contemporaneamente da complessi fenomeni di irraggiamento interno.
Stadi diversi di un bruco di macaone (Papilio machaon). Foto a sinistra, dopo la schiusa dell’uovo; foto a destra, poco prima dell’ultima muta prima della fase di crisalide.
A sinistra, ultima muta del bruco già in posizione prima di entrare nella fase di “immobilità esteriore”. A destra, crisalide nell’ultima fase prima dello sfarfallamento.
Le farfalle diurne escono dalla crisalide prevalentemente di mattina. La rottura dell’involucro è determinata dagli ormoni, proprio come per noi l’inizio del parto. Nella maggior parte delle specie la crisalide assume colorazioni diverse in base “all’età”: quella delle vanesse ad esempio all’inizio è verde prato, man mano sbiadisce diventando giallognola, poi marroncina ed infine quando è quasi giunta a maturazione, marrone scuro, quasi nera.
Una volta nata, il primo giorno di volo spesso coincide con quello in cui viene scelto il partner. Le femmine di farfalla si accoppiano diverse volte, i maschi hanno sviluppato una strategia per rendere innocuo lo sperma dei partner successivi, in modo da “conservarsi” maggiori probabilità di riproduzione.
Ad ogni specie in base alle sue caratteristiche è stato dato un nome: un nome scientifico in latino, scritto sempre in corsivo, e alle volte un nome volgare nella lingua locale. Questo ha contribuito a riunire farfalle simili in base alle caratteristiche che avevano in comune e si sono creati dei raggruppamenti detti famiglie che nel nostro caso hanno suddiviso le farfalle diurne in: Papilionidi, Pieridi, Licenidi, Ninfalidi, Esperidi.
Nella famiglia dei Papilionidi rientrano le più famose farfalle del mondo anche se per la maggior parte sono esotiche. Sono farfalle caratterizzate da colorazioni brillanti, da un volo lento e fluttuante, dall’eleganza del taglio delle ali e la presenza, per alcune specie, di due lunghe estensioni posteriori dette “code”. I bruchi per la maggior parte delle specie sono di colori appariscenti, tossici e presentano dietro la nuca un particolare organo erettile biforcuto, l’osmeterio. Quest’organo ha funzione difensiva emettendo un odore penetrante e ripugnante quando l’insetto viene disturbato da un possibile predatore.
Le specie che caratterizzano questa famiglia e che si possono vedere volare nelle Grave di Ciano sono il podalirio (Iphiclides podalirius) ed il macaone (Papilio machaon).
A sinistra un esemplare adulto di podalirio (Iphiclides podalirius), a destra un esemplare adulto di macaone (Papilio machaon)
La famiglia dei Pieridi conta in Italia 28 specie,10 sono state osservate all’interno delle grave di Ciano.
Sono farfalle di media o piccola dimensione i cui colori dominanti sono il bianco e il giallo alle volte ornati di macchie nere. Alcune tra queste specie sono conosciute ai più come “cavolaie”.
Nelle tiepide giornate di fine inverno, può capitare di veder volare una farfalla dalle ali giallo limone luminoso che crea un bellissimo contrasto con le tinte smorte della stagione fredda. Si tratta di qualche individuo maschio svernante, le femmine sono di colore bianco verdino,di cedronella (Gonepteryx rhamni) che risvegliato dai primi tepori primaverili, inizia la sua ricerca di cibo e di una compagna. La vita da immagine di queste farfalle, della durata di circa nove mesi, è tra le più lunghe delle specie di Ropaloceri europee.
Individuo adulto femmina di cedronella (Gonepteryx rhamni).
Un’altra specie presente anche nelle Grave, l’aurora (Anthocharis cardamines), è uno dei primi lepidotteri che salutano la primavera. Sverna come crisalide ed all’inizio della bella stagione si fa notare grazie alla vistosa macchia arancione che adorna le ali anteriori nei maschi, mentre gli individui femminili possono venire scambiati per delle comuni cavolaie. Il bruco di questo pieride si ciba di varie specie di brassicacee. A maturità esso si trasforma in una crisalide molto particolare che per aspetto assume le sembianze di una spina o un rametto spezzato, per mimetizzarsi meglio durante lo sviluppo modifica addirittura il suo colore in base all’ambiente circostante.
A sinistra individuo adulto maschio; a destra individui in accoppiamento.
Della famiglia dei Licenidi fanno parte quelle piccole farfalle azzurre che normalmente si osservano sui prati fioriti dalla pianura all’alta montagna. Le livree brillantemente colorate sono tipiche principalmente dei maschi, mentre le femmine hanno colorazioni più mimetiche. Le uova di questa famiglia sono tra le più piccole nel mondo degli insetti, di rado raggiungono il millimetro, mentre i bruchi sono normalmente tozzi, con testa e zampe poco visibili perché nascoste sotto il corpo. In talune specie questi sono mirmecofili, cioè per il loro sviluppo o per la loro protezione stringono singolari relazioni di convivenza con alcune specie di formiche. Nel territorio delle grave di Ciano sono molte le specie che si sono coevolute con alcune specie di formiche, tra cui l’alexis (Glaucopsyche alexis). Il maschio ha le ali azzurre con una bordatura marginale nera, la femmina è di colore bruno scuro; spesso l’area basale è spruzzata di blu-violaceo.
Individuo adulto di alexis (Glaucopsyche alexis).
La famiglia dei Ninfalidi è la famiglia più numerosa, con circa 7000 specie finora classificate in tutto il mondo. In esse rientrano anche farfalle un tempo classificate come una famiglia a sé stante, i Satiridi; studi recenti su relazioni filogenetiche hanno evidenziato che non può essere giustificata la suddivisione di queste dal resto dei Ninfalidi.
Le farfalle rientranti in questa famiglia possono essere grandi volatrici oppure esili e schive, con un volo battuto e potente possono compiere anche lunghe migrazioni. Caratteristica comune a tutte le farfalle di questa famiglia è l’atrofia del primo paio di zampe.
Le vanesse sono le farfalle per antonomasia. Farfalle robuste sono capaci di spostarsi per svariati chilometri. La vanessa del cardo (Vanessa cardui) migra ogni primavera dall’Africa fino alle estremità più settentrionali d’Europa; in certi anni avvengono delle vere e proprie invasioni e si assiste al passaggio di un numero elevato di individui che da sud migrano ininterrottamente verso nord, attraversando mari e valicando montagne senza quasi fermarsi ad alimentarsi. Le specie di piante su cui si alimentano i bruchi di questa energica farfalla rientrano in numerose famiglie come Cucurbitacee, Asteracee, Leguminose, Malvacee, Brassicacee. Gli adulti vengono attirati da piante come la buddleja (Buddleja davidii).
Un’altra farfalla di questa famiglia che si può osservare volare nelle grave di Ciano è la poligonia c-bianca (Polygonia c-album), caratterizzata da un segno bianco a forma di virgola sulla parte inferiore delle ali posteriori. Quando chiude le sue ali sfrangiate, diventa praticamente indistinguibile da una foglia morta.
Gli individui che volano a fine estate, svernano riapparendo nella primavera successiva. Le piante nutrici dei bruchi di questo lepidottero come l’ortica (Urtica dioica), il salice bianco (Salix alba), il luppolo (Humulus lupulus) sono state osservate abbondanti nell’area delle grave.
Individuo adulto di poligonia c-bianca (Polygonia c-album). Particolare è il mimetismo di questa farfalla che ritrae una foglia secca.
Gli Esperidi sono farfalle di dimensioni molto piccole. Hanno un distintivo volo rapido e sono considerate farfalle primitive a causa di alcune caratteristiche fisiche e comportamentali che le pongono come una via di mezzo tra le farfalle diurne e le falene.
Tra le farfalle di questa famiglia, particolare interesse lo riveste ad esempio il morfeo (Heteropterus morpheus). Questa specie presenta un volo ondeggiante particolare. Di piccole dimensioni, ha ali di colori bruno scuro uniforme nella pagina superiore mentre caratteristiche macchie chiare su sfondo giallognolo nella pagina inferiore. In Veneto questa specie ha una distribuzione circoscritta e frammentata, gli habitat delle grave di Ciano sono fondamentali per la sua sopravvivenza.
Individuo adulto di morfeo (Heteropterus morpheus).
L’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità sottoscritto nel settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri dell’ONU. Essa ingloba 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile in un grande programma d’azione per un totale di 169 traguardi.
Gli Obiettivi per lo Sviluppo rappresentano obiettivi comuni su un insieme di questioni importanti per lo sviluppo: la lotta alla povertà, l’eliminazione della fame e il contrasto al cambiamento climatico, la tutela, la protezione e l’implemento della biodiversità per citarne solo alcuni. ‘Obiettivi comuni’ significa che essi riguardano tutti i Paesi e tutti gli individui: nessuno ne è escluso.
L’obiettivo 15 ad esempio riguarda il “proteggere, ripristinare e favorire un uso sostenibile dell’ecosistema terrestre”
Alcuni dei suoi traguardi vedono: entro il 2020, garantire la conservazione, il ripristino e l’utilizzo sostenibile degli ecosistemi di acqua dolce terrestri e dell’entroterra nonché dei loro servizi, in modo particolare delle foreste, delle paludi, delle montagne e delle zone aride, in linea con gli obblighi derivanti dagli accordi internazionali; intraprendere azioni efficaci ed immediate per ridurre il degrado degli ambienti naturali, arrestare la distruzione della biodiversità e, entro il 2020, proteggere le specie a rischio di estinzione.
L’Agenda 2030 sottolinea che devono essere “Obiettivi comuni”, nessuno ne è escluso, e parla di traguardi da raggiungere nel 2020 che non abbiamo raggiunto e che continuando con la gestione ambientale attuale, non raggiungeremo mai.
I “limiti planetari” tracciati nel 2009 definiscono i confini entro i quali noi esseri umani possiamo operare in sicurezza, senza nuocere agli equilibri del pianeta. Se li superiamo, al contrario, rischiamo di trasformare la Terra in un luogo assai meno ospitale per noi di quanto sia ora. Sono stati identificati nove sistemi fondamentali: gli oceani, il sistema climatico atmosferico, lo strato di ozono stratosferico, la biodiversità, il ciclo idrologico, lo sfruttamento del suolo e il ciclo dei nutrienti come azoto e fosforo. Gli ultimi due appartengono a categorie che non esistono naturalmente, come l’inquinamento atmosferico o le scorie nucleari.
I cambiamenti climatici ci ricordano ogni giorno uno dei limiti planetari che abbiamo oltrepassato, ma se andiamo ad osservare con più attenzione il limite planetario in assoluto più incombente è la perdita di biodiversità.
Nel report pubblicato nel 2020 da IPBES (Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services) massima autorità scientifica su natura e biodiversità che descrive in modo dettagliato i nessi tra declino della biodiversità e pandemie, era sottolineato:
“Il rischio di pandemie può essere notevolmente ridotto, contenendo le attività umane che causano la perdita di biodiversità, aumentando il livello di conservazione della natura, allargando l’estensione delle aree protette esistenti, creandone delle nuove, riducendo lo sfruttamento insostenibile delle regioni del pianeta ad alto grado di biodiversità”.
La tutela della biodiversità si attua in particolar modo proteggendo l’ambiente che ci circonda, ognuno di noi non è escluso da questo obiettivo comune.
Inizio questo breve testo con una frase da sussidiario delle scuole primarie: ‘L’acqua è una risorsa fondamentale per la vita nella terra’. Chi di noi non l’ha sentita durante le ore di geografia mentre il maestro spiega le ‘risorse’ del pianeta? Sono però proprio le verità più ovvie, quasi banali, quelle più difficili da afferrare, discutere e capire. Perché le diamo per scontate e perché sono sempre disponibili. Sono lì, a portata di mano, anzi, di rubinetto, o nel peggiore dei casi di bottiglia. Per un momento, almeno fino alla fine di questo breve scritto, vi chiedo di mettere da parte ogni scettiscismo sul valore della scontata ovvietà.
Infatti, per molte persone del pianeta, dire che l’acqua è preziosa non è assolutamente una banalità. Fermiamoci un attimo, non serve fare il giro del pianeta. Anche in questi stessi giorni in cui scrivo queste righe, non mancano gli appelli di esperti, associazioni di categoria, enti di gestione, meteorologi che ci mettono in guardia sulla scarsa portata invernale dei fiumi padani e veneto-friulani.
I titoli che riempiono le testate dei giornali o delle nostre bacheche social pullulano di allarmistici cattivi presagi: ‘Manca l’acqua’, ‘Siamo a rischio siccità’, ‘Non piove da mesi, i fiumi sono ai minimi’ ecc. I titoli si susseguono, l’allarme cresce, almeno fino alla prossima pioggia.
Poi il clamore si fermerà, per riprendere eventualmente durante la tarda primavera, quando alcuni giorni di intense precipitazioni riproporranno l’allarme e allora, altro che siccità, i titoli saranno tutti dedicati alle possibili esondazioni. Un ciclo continuo che però ha poco a che fare con quello dell’acqua.
E se la siccità, anche quella invernale, non è un evento di per sé stesso, come le possibili piene, sono la ricorrenza e la frequenza di questi fenomeni che iniziano ad essere preoccupanti. Con questo non sto sottovalutando gli effetti negativi di questi eventi estremi, e nemmeno sminuendo l’impegno e il sacrosanto lavoro di coloro che si devono occupare del controllo delle acque o la preoccupazione di coloro che si allarmano se l’acqua non c’è, vedi gli agricoltori, o se è in eccesso, vedi le persone che abitano nei pressi di punti sensibili dove i fiumi potrebbero eventualmente tracimare e causare danni materiali e perdite sentimentali. L’acqua passa velocemente da alleata a nemica, con oscillazioni così rapide che dovrebbero farci quanto meno riflettere.
Fiume Tagliamento a Rocca di Venzone (UD) – Ph. Ignazio Lambertini
Quello che però mi interessa sottolineare in questo breve testo è che la nostra attenzione verso i fiumi è quasi schizofrenica e interessata solo alle polarità estreme, ma soprattutto che il punto da cui guardiamo ai corsi d’acqua è sempre autocentrato (io o la mia comunità più vicina) e antropocentrico (come facciamo a gestire e controllare l’acqua perché non rechi danno alle ‘cose’ umane). Ecco questo è il punto.
Il fiume è una risorsa non per l’ambiente, ma per noi. Siamo in qualche modo disconnessi, staccati e indifferenti allo stato di salute del fiume perché non viviamo ‘con’ il fiume ma ‘del’ fiume. Ci interessa in quanto oggetto ad uso e consumo.
Nulla di male, sia chiaro! In pratica però, la nostra concezione di stampo illuminista (siano benedetti i Lumi!) è regolata sull’idea di dominio assoluto dell’uomo sulla natura, e respinge la prospettiva che la natura, in questo caso il fiume, sia un soggetto (tra gli altri) con il quale interagiree che abbia una sua personalità, magari giuridica. I corsi d’acqua anzi sono quasi sempre confinati in un ambito di subalternità.
Prima di introdurre quello che è stato un riconoscimento che a livello globale ha fatto rapidamente il giro del mondo è utile precisare che il tema della “soggettivizzazione giuridica della natura va tenuta distinta, pur in presenza di alcune evidenti analogie, dalla sacralizzazione degli elementi naturali, come il fuoco o l’acqua, che non a caso molte civiltà antiche hanno voluto personificare per riconoscere il loro ruolo insostituibile per la nascita e lo sviluppo della vita.” (Louvin, 2017: 624).
E veniamo al maggio del 2017, quando, al culmine di un lungo negoziato fra il governo neozelandese e i Whanganui iwi (una comunità locale Maori), attraverso il ‘Whanganui River Claims Settlement’, è stato riconosciuto al fiume Whanganui il carattere di entità vivente, attribuendogli dei diritti significativamente simili a quelli delle persone giuridiche (Charpleix 2018). Non stiamo parlando di un ruscelletto, ma del terzo fiume più lungo della Nuova Zelanda, per capirci, ben più lungo del preteso ‘fiume sacro alla Patria’ e che si collocherebbe quasi in cima alla classifica, per lunghezza, dei fiumi nostrani. Quindi non si tratta di un riconoscimento simbolico, della classica compensazione o di un’opera pia nei confronti di un elemento marginale.
Fiume Stella a Precenicco (UD) – Ph Ignazio Lambertini
Cosa significa riconoscere ad un corso d’acqua la personalità giuridica? Meglio citare direttamente l’atto, per poi chiarire.
Nel ‘Whanganui River Claims Settlement’ (Te Awa Tupua Act in lingua Maori) il fiume è definito come: una entità spirituale e concreta allo stesso tempo […] che sorregge e supporta allo stesso tempo la vita e le stesse risorse naturali […] e la salute e il benessere degli iwi, hapū, e di altre comunità del fiume”
Queste parole sottolineano e pongono l’accento sul doppio binario attraverso il quale dovrebbe essere interpretato (forse vissuto?) il fiume e cioè come un soggetto attivo, titolare di diritti e doveri perché è fondamentale per la vita ma anche per il contesto ambientale, è parte di un tutto, non a disposizione di qualcuno, e se anche lo fosse, lo è in misura tale da essere necessario per la salute e il benessere.
Dunque, ciò è in contraddizione con la qualifica dell’acqua come risorsa, riproposta più volte dalla modernità fino ai giorni nostri. Il fiume non è terra nullius, di cui possiamo disporre perché svuotato di diritti, ma diventa, come acutamente osservato da Roberto Louvin, rifacendosi al diritto romano, una forma “del riconoscimento di questi elementi naturali come res communes omnium, ossia beni da collocarsi extra commercium, al pari delle res sacrae. Utile, però, a questo proposito rammentare come il termine res non indicasse soltanto una cosa in senso materiale, ma abbracciasse per i romani un ventaglio di significati molto più ampio, essendo inteso anche come entità, rapporto, fatto, questione, situazione…” (Louvin, 2017: 625).
Nel mondo, quello del fiume Whanganui non è un caso isolato, anzi. Nonostante alcune differenze, che dipendono dal contesto locale e dal corpo legislativo a cui ciascun paese fa riferimento, possiamo menzionare alcuni casi che ci fanno intendere come qualcosa stia cambiando, seppur lentamente. Il nostro approccio si sta modificando, anche se di poco. La questione della personificazione giuridica della natura, accantonata per secoli dal pensiero giuridico occidentale moderno, riemerge oggi in maniera evidente (Gordon 2018).
Per esempio, nel novembre 2016 la Corte costituzionale della Colombiaha riconosciuto uno dei suoi fiumi più lunghi e ricchi di biodiversità, l’Atrato (più di 750 km di lunghezza e con un bacino che copre una porzione di territorio pari a due volte la superficie del Veneto), come soggetto di diritto e persona giuridica, la cui rappresentanza è stata affidata a una ‘commissione di guardiani’ (‘comisión de guardianes del río Atrato’). O, cambiando completamente continente, nel marzo 2017 in India, l’Alta Corte dell’Uttarakhand (uno stato Indiano a nord che confina con Nepal e Cina) si è pronunciata su due casi (successivamente e attualmente sospesi) che hanno portato al riconoscimento dei fiumi Gange e Yumuna, dei loro affluenti (il ‘Gange and Yumuna case’) e dei loro ghiacciai nonché dell’ambiente circostante, come ‘persone giuridiche’. Insomma, siamo di fronte ad alcuni modi di approcciarci ai corsi d’acqua completamente diversi e antitetici rispetto a come siamo abituati a concepire.
Fiume Reno a Sant’Alberto (RA) – Ph Ignazio Lambertini
Per chiudere riporto alcune indicazioni che arrivano dal sesto rapporto del Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (IPCC 2021), il quale conferma [sic!] quasi tutte le previsioni dei precedenti report sull’attuale traiettoria socio-economica globale dell’umanità: siamo nel bel mezzo dell’Antropocene, senza dubbio! Infatti, la capacità umana, a livello globale, di alterare i processi geologici, che hanno dato il nome all’epoca attuale, sta ora mettendo a nudo l’impatto di tale trasformazione. Incendi senza precedenti in Nord America, Australia e nella foresta amazzonica, eventi meteorologici estremi, inondazioni in aumento, erosione costiera: tutti questi episodi stanno diventando sempre più comuni e i loro effetti sui sistemi socio-economici e politici globali sono sempre più evidenti. Non voglio con questo assumere posizioni moralistiche o millenariste, ci mancherebbe. La mia è speranza: quella di sedermi di nuovo, e come spesso mi accade, in riva ad un fiume e tornare a vedere il lampo argentato di un Temolo (sì, con la maiuscola) che salta sopra il pelo dell’acqua.
Con questo, infatti, non significa che non ci sarà più acqua ma semplicemente che, volenti o nolenti, ci troveremo sempre più invischiati a discutere a proposito di eventi estremi e che i momenti polarizzanti – siccità e alluvioni – saranno di volta in volta maggiormente presenti nel dibattito pubblico. E questo, almeno a livello teorico, potrebbe spingerci a trovare soluzioni alternative ed elaborare schemi di pensiero diversi. Purtroppo, però, in questi momenti estremi di solito manca la lucidità necessaria per affrontarli e bisogna constatare che fino ad ora questa discussione non ha portato da nessuna parte. Forse è il momento di cercare almeno di cambiare prospettiva e magari tentare di non metterci sempre al centro del dibattito ma di provare a ribaltare la visione antropocentrica e autocentrata verso una visione più inclusiva e bio-centrica. Dove noi siamo il fiume e il fiume siamo noi, parafrasando il detto dei Maori Whanganui iwi a proposito del fiume. Prosit!
Francesco Visentin Università degli studi di Udine
Foto di copertina: Torrente Cormor a Udine – Ph Ignazio Lambertini
Breve bibliografia di riferimento: Charpleix, L. (2018) The Whanganui River as Te Awa Tupua: Place-based law in a legally pluralistic society. Geographical Journal, 184, 19–30. Gordon, G. J. (2018). Environmental Personhood. Columbia Journal of Environmental Law, 43, 49-91. Louvin, R. (2017). L’attribuzione di personalità giuridica ai corpi idrici naturali. Diritto pubblico comparato ed europeo, 3 luglio-settembre, 623-648. Te Awa Tupua (Whanganui River Claims Settlement) Act 2017, s 13(a) (New Zealand).
Al di là dello specifico interesse naturalistico, che fa delle Grave del Piave di Ciano, un ambiente unico e di interesse europeo vi sono altri elementi che fanno di questa zona un luogo di totale rispetto per il valore archeologico, storico ed antropologico.
Non si può negare il fatto che le Grave di Ciano, comprese tra il ponte di Vidor e le prime anse che lambiscono i declivi di Colfosco, nascondano e proteggano reperti di inestimabile valore, parte dei quali si trovano conservati nel Museo Civico di Crocetta del Montello.
Villa Ancilotto, Crocetta del Montello – al secondo piano ospita il Museo Civico “La Terra e l’Uomo”
Il movimento delle ghiaie a seguito di fortuite piene riporta ogni tanto alla luce vestigia dell’antica età del bronzo. La costruzione di casse di espansione in questo luogo seppellirebbe definitivamente il patrimonio storico-archeologico, che peraltro appartiene allo stato italiano, così come a tutta la collettività.
Nel greto del Piave, a partire dagli anni ’50, sono emersi manufatti in bronzo quali asce, spade e pani di fusione databili in un ambito cronologico che va dal XIV all’VIII secolo avanti Cristo.
Alcune spade di bronzo rinvenute nel greto del Piave. Le tipologie assumono i nomi dalle località di maggiori rinvenimenti in area danubiana e slava dall’Austria alla Romania
Nelle foto sopra alcuni strumenti di bronzo: asce ad alette e con innesto a cannone, pani di bronzo: il materiale proviene dalle zone del Piave tra Ciano del Montello e Colfosco di Susegana.
Siamo nella media età del Bronzo: le spade Sauerbrunn-Boiu o quelle appartenenti al gruppo Sombor-Smolenice, come le asce affini al tipo Greiner Strudel, sono la testimonianza di quelli che possiamo definire piccoli tesori dovuti in parte al naufragio di zattere che scendevano dalla regione dolomitica verso l’Adriatico. Le spade decorate a bulino con motivi monocentrici ci indicano l’importanza di questo sito che fino ad oggi ci ha generosamente restituito reperti di grande importanza.
Grande varietà di selci lavorate provenienti da siti di Crocetta del Montello
Modificare il corso del fiume con costruzioni faraoniche significherebbe annullare le possibilità di ulteriori ritrovamenti, patrimonio dello stato italiano, tanto utili per la conoscenza collettiva e il danno diventerebbe irreparabile. Inoltre sulle sponde adiacenti a Santa Mama verrebbe modificato quel paesaggio che da millenni è stato considerato punto di riferimento per le genti locali dal mesolitico ad oggi.
Il Buoro di Ciano con la sua sorgente d’acqua, ha attratto le popolazioni Castelnoviane che tra gli otto e i dieci mila anni fa si sono stanziate sul terrazzamento adiacente. Reperti unici nel loro essere e oggi esposti al Museo di Crocetta ci raccontano una storia millenaria di genti dedite alla pesca e ai trasporti fluviali.
Reperti litici di Cultura Castelnoviana (VI-V millennio a.C.) provenienti dal terrazzamento di Santa Mama (tra Piave e Montello)
Il complesso Mesolitico di Santa Mama ha restituito centinaia di manufatti e una buona politica di preservazione dei luoghi indurrebbe la crescita di un turismo culturale che per certi versi potrebbe diventare unico nel suo aspetto.
Il Buoro di Ciano, come già detto, oltre ad attrarre le popolazioni preistoriche è sempre stato un punto di riferimento per le popolazioni locali. È un sito che per la sua ricchezza d’acqua ha suggerito alla fantasia popolare l’immagine di luogo sacro, frequentato da ninfe o fate, e tutto ciò probabilmente fin dai primi insediamenti umani, quando magia e religione si fondevano una nell’altra. L’acqua e la caverna sono due elementi inscindibili tra loro, legati ai culti ancestrali della fertilità della Terra.
Il nome di questa cavità ipogea ci riporta all’epoca romana quando Ciane, la ninfa dell’acqua veniva probabilmente considerata una fata delle grotte montelliane che si aprivano verso il Piave. Ciane, personaggio leggendario, è quella ninfa delle fonti che potrebbe essere all’origine del nome di Ciano.
La ninfa nella mitologia classica cercò di impedire a Plutone, dio degli inferi, di rapire Proserpina, e fu proprio questi che, per vendicarsi, la trasformò in una fonte. Le origini di questa leggenda potrebbero trovare conferma nei ritrovamenti di vestigia preistoriche e protostoriche rinvenute nel terrazzamento alluvionale immediatamente sovrastante.
Sempre in relazione ai culti della Terra e della Fertilità , nel medioevo la cavità del Buoro di Ciano deve aver avuto un ruolo estremamente importante, tanto che nelle sue adiacenze nacque un luogo sacro cristiano probabilmente dedicato a San Mamete di Cesarea indicato come San Mamas ed oggi identificabile nella chiesetta di Santa Mama. San Mamete è uno dei santi più popolari dell’Oriente bizantino e il suo culto giunse nella regione veneta nei primi secoli della diffusione del cristianesimo. Quando il culto di Mitra, legato alle grotte e alle cavità naturali, venne lentamente sostituito con quello di Gesù Cristo o del Buon Pastore. Pastore era San Mamete nato nel 259 d.C. in Cappadocia. Dopo la sua morte nel 275 fu santificato e divenne patrono delle balie, in quanto da infante veniva nutrito con il latte degli animali. Si racconta che dopo la morte della madre, condusse una vita da pastore continuando a nutrirsi del latte delle fiere da lui stesso addomesticate. È sempre stato venerato dalle puerpere che lo invocavano per avere latte a sufficienza.
Nelle foto; la chiesetta di Santa Mama, un’immagine del Santo e una delle numerose raffigurazione di Mitra. Il Mitraismo (culto religioso persiano) dilagò a Roma con il ritorno delle legioni dall’Oriente nel I secolo a.C. Tarde sopravvivenze del culto mitriaco si possono trovare fino al V secolo in alcuni luoghi delle Alpi e nelle regioni orientali. La religione cristiana avversò il mitraismo nel quale oggi si ravvisano analogie con lo stesso cristianesimo. Ciò fa supporre che ogni civiltà si sovrappone ad altra esistente conservandone delle tracce. https://www.romanoimpero.com/2009/10/il-culto-di-mitra.html
La grotta del Buoro mantiene viva tutt’oggi quella forma spontanea di sincretismo che in qualche modo risulta legata agli antichi culti relazionati con le cavità ipogee, probabilmente dal Mesolitico fino all’editto di Costantino e la lenta diffusione del cristianesimo.
A livello popolare cambiano le immagini ma non i valori che esse rappresentano: le ninfe sostituite da Mitra, questi da San Mamete, e a sua volta dalla vergine Maria messa a baluardo difensivo lungo tutta la fascia prealpina contro l’introduzione del protestantesimo. Il nome della chiesa, dall’originario Mamas, Mamete (Mamerto?), è stato declinato al femminile in Santa Mama, con riferimento alla Vergine Maria, come appare dalla lunetta della facciata, raffigurante la Madonna col Bambino in mezzo alla natura popolata di animali.
Gli anziani di Ciano raccontano che un tempo vivevano intorno alla fonte tre contadini malvagi che volevano deturpare l’acqua affinché nessuno potesse farne uso. Un giorno però apparve loro una figura femminile, nell’immaginario collettivo la Madonna, e consigliò a quei personaggi di desistere dal loro intento. Si racconta anche che dopo quell’evento l’acqua da torbida divenne limpida e che quella signora con un suo gesto trasformò i tre malvagi in animali, probabilmente in lupi. Fatto che coincide con la presenza del “Capitel dei Lovi” sorto nella piana delle Grave, non lontano dalla grotta, adiacente alla chiesa di Santa Mama e vicino al porto degli zattieri, quando il Piave costituiva il fulcro vitale della vita economica di quell’epoca.
Due immagini del “Capitel dei lovi”. A sinistra uno scatto tratto da “Vivere il Montello” del 1984, a destra un’istantanea dal cortometraggio di IrideVideo del 2010.
In relazione all’apparizione della Madonna si racconta che da quella volta l’acqua del Buoro di Ciano si sia arricchita di mirabili virtù e per secoli le puerpere sono accorse a questa fonte per migliorare la qualità e quantità del loro latte. Ancora negli anni sessanta del secolo scorso arrivavano piccole comitive di fedeli dalle vicine province di Padova e Venezia. Solo dopo gli anni settanta, con il calo del flusso della sorgente, questa tradizione scomparve e la consuetudine divenne storia ed oggi vive solo nella tradizione orale.
Il fiume nel suo lento scorrere tra le ghiaie sapientemente depositate dalle forze della natura, conserva la storia e pacatamente la trasforma in mito. È importante riscoprire i luoghi, depositari della nostra storia, e non cancellarli per scelte irrazionali o peggio ancora per fattori speculativi dettati dall’uso indiscriminato del cemento che, negli ultimi decenni, ha mosso masse di capitali considerevoli a discapito della salvaguardia delle risorse collettive. L’arricchimento di pochi non può compromettere la vita e la pace interiore di comunità intere che riconoscono nel valore della storia la propria identità.
Antonio Paolillo
Immagine di copertina: ricostruzione di un villaggio dell’età del bronzo a cura del Museo “La Terra e l’Uomo”